Camere di tortura a Bologna durante la Repubblica di Salò: il caso di Ingegneria


Camere di tortura a Bologna durante la Repubblica di Salò: il caso di Ingegneria di Renato Sasdelli

  1. Milizie fasciste a Bologna

La moltitudine di corpi e milizie armate, tra loro in concorrenza, alcune volte in contrasto violento, fu una caratteristica della Repubblica di Salò. Vi fu un’adesione ideologica, come nel caso della X Mas di Borghese, che stilò un accordo con i tedeschi ancora prima della riesumazione politica di Mussolini da parte di Hitler, o di chi si arruolò nella Waffen Miliz, la Milizia armata da cui avrebbe poi tratto origine la Legione SS Italiana, o infine di tanti singoli:

quando Mussolini fu liberato a Campo Imperatore dal maggiore Skorzeny e fu formata la Repubblica sociale italiana, mio padre riaprì la Casa del Fascio di Budrio e tutti i maschi della mia famiglia si arruolarono nelle formazioni della RSI: mio padre nella Guardia nazionale repubblicana, io nella 21a Brigata nera di Bologna [in realtà, a Bologna operò la 23a B. N. “E. Facchini”], un mio fratello nella Decima flottiglia Mas della divisione San Marco, ed un altro direttamente nella Wehrmacht (Testimonianza di Q. Marchesini in F. Gambetti, L’ultima leva. La scelta dei giovani dopo l’8 settembre 1943, Ponte Nuovo ed., Bologna, 1996.).

L’adesione di altri fu veicolata dalla prospettiva del vitto assicurato, dall’entità del soldo e dal diritto di saccheggio, quest’ultimo tollerato dalle autorità fasciste o addirittura riconosciuto dalle stesse per certi corpi. («Gli uomini che compongono il nucleo speciale […] debbono essere pure essi ben pagati, ben nutriti e bene armati, dato che non è loro concesso il diritto al bottino, come era in uso presso gli uomini della disciolta CAS [Compagnia autonoma speciale]» in M. Fabiani, Relazione sulla situazione della Provincia [di Bologna], 27 ottobre 1944-XXIII, in ISPER, Fondo Masulli, b. 1 f. 1.)

Mussolini, liberato dai paracadutisti tedeschi il 12 settembre 1943, il 15 settembre emanò dalla Germania sei Fogli d’ordine del Regime Fascista Repubblicano (Per il loro testo si veda ad es. “il Resto del Carlino”, 16-17 settembre 1943.); nel quinto ordinava la «ricostituzione di tutte le formazioni e specialità della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale». Coerentemente, il primo Consiglio dei ministri del governo fascista repubblicano decise:

Nella riorganizzazione in atto delle Forze Armate, le forze terrestri marittime ed aeree vengono rispettivamente inquadrate nella Milizia, nella Marina, nell’Aeronautica dello Stato Fascista Repubblicano (Vedi ad es. “il Resto del Carlino”, Il primo consiglio dei ministri del Governo fascista repubblicano. La situazione illustrata da Mussolini, 28-29 settembre 1943.).

La Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) fu costituita nel novembre 1943 unendo la MVSN, i Carabinieri Reali e la Polizia dell’Africa Italiana. Un decreto dell’agosto successivo modificò il primato della Milizia stabilendo che essa entrava a far parte dell’esercito nazionale repubblicano, sia pure come prima arma combattente. (Decreto legislativo del Duce 14/8/1944 n. 469 Passaggio della GNR nell’esercito repubblicano. In pratica la GNR inquadrò solo i membri della Milizia. La PAI aveva meno di 2500 effettivi e i Carabinieri, sospettati di infedeltà dai tedeschi (ne ordinarono il disarmo prima della razzia degli ebrei di Roma accusandoli di «inefficienza numerica morale e combattiva») e odiati dai fascisti per avere arrestato Mussolini dopo il 25 luglio 1943, furono in gran parte deportati in Germania.)

Il processo iniziato nel gennaio 1944 volto ad attuare la militarizzazione integrale del Partito Fascista Repubblicano si concluse nel luglio con la costituzione delle Brigate Nere. Ad esse Pavolini ordinò: «nelle operazioni antiribelli le Squadre non fanno prigionieri» (Cfr. la circolare segreta di A. Pavolini del 25 giugno 1944 Ai Delegati regionali, ai Capi delle province, ai Commissari federali, riportata in M. Martelli, Le brigate nere L’esercito di Pavolini e la repubblica di Salò, M.I.R, Montespertoli, 1999, pp. 114-116.).

Il rifiuto della guerra che spinse molti giovani a sottrarsi ai bandi di leva dell’Esercito Repubblicano spesso non ebbe motivazioni politiche. Tra quanti si arruolarono solo per le minacce di morte contro i renitenti e i loro familiari, in molti disertarono; altri per sfuggire all’arruolamento entrarono nell’Organizzazione Todt; tanti si nascosero; altri infine si unirono ai “ribelli”.

Accanto a GNR e Brigate Nere operarono in funzione antipartigiana numerosi altri corpi. Spesso si accusarono vicendevolmente di sottrarsi militi con la promessa di un soldo più elevato, di vivere lontano dal fronte invece di combattere Alleati e partigiani, di operare grassazioni. A queste milizie furono attribuiti, quando non se li attribuirono esse stesse, compiti di polizia politica che si sovrapposero a quelli della Polizia repubblicana; ciò facilitò abusi e violazioni della stessa legislazione fascista. A Bologna si possono citare il Reparto d’Assalto della Polizia (RAP) che, agli ordini del capitano Noci, operava per la Questura, e la Compagnia Autonoma Speciale (CAS) comandata da Tartarotti. Quest’ultimo fu l’unico tra i condannati a morte dopo la Liberazione in provincia di Bologna ad essere fucilato. Queste milizie svolsero l’attività di polizia sotto il controllo dell’Aussenkommando Bologna delle SS. Nelle loro sedi fu praticata la tortura, al pari di quanto facevano le SS medesime; sotto il comando tedesco, o autonomamente, giustiziarono partigiani e operarono eccidi di uomini della Resistenza.

Dalla frantumazione dello Stato, dalla sua forzata rinuncia ad esercitare il monopolio della violenza e della forza armata, fuoriuscì il magma di una violenza privata incontrollata e incontrollabile. Fu questo lo scenario politico da cui scaturì la scelta disperata ed efferata di trasferire direttamente nei corpi dei nemici uccisi l’unico fondamento della propria credibilità istituzionale e della propria autorità statuale. […] la legittimazione della RSI, dapprima tentata invano attraverso la ricostruzione di un esercito appena decente, fu quindi inseguita, alla fine, nei corpi esposti ed esibiti dei nemici uccisi (G. De Luna, Il corpo del nemico ucciso Violenza e morte nella guerra contemporanea, Giulio Einaudi editore, Torino, 2006.).

La violenza venne assunta a regola, usata come monito pubblico (basti pensare alla esposizione, anche per giorni, dei cadaveri dei fucilati, o al “posto di ristoro per gappisti” in Piazza Nettuno a Bologna) o nel segreto delle camere di tortura. La violenza dei fascisti assunse talvolta i caratteri della “guerra ai civili” condotta dai nazisti nei paesi occupati:

questi comportamenti suggeriscono la possibilità che i fascisti di Salò si sentissero in terra straniera, quasi si trattasse di rendere credibili uomini e istituzioni appartenenti a una potenza occupante e si dovesse combattere dando per scontata un’ostilità generalizzata delle popolazioni civili. (Ibidem.)

La “guerra ai civili” fu praticata anche a Bologna, tanto che il generale Frido von Senger, cui premeva mantenere un ordine pubblico per quanto possibile “tranquillo” nella città che, dopo l’abbandono della Toscana, era diventata il perno del sistema difensivo tedesco, cacciò le due Brigate Nere di stanza in città, la 23a comandata dal federale Torri e la 3a “mobile” comandata da Franz Pagliani accusandole di compiere “assassinii da strada”. Il generale, comandante del XIV corpo corazzato germanico e della piazza di Bologna, così si espresse a proposito delle Brigate Nere bolognesi:

Autentico flagello della popolazione, […] le brigate nere erano composte dai seguaci più fanatici del partito. [. ] gli uomini di queste formazioni erano capaci di assassinare chiunque, di compiere qualsiasi nefandezza quando si trattava di eliminare un avversario politico. […] L’anima “nera” delle brigate nere di Bologna era [Franz Pagliani] un professore della Facoltà di medicina dell’Università. […] Ogni tentativo di indurlo a un franco scambio di idee si rivelò inutile. L’uomo si trincerava dietro il federale, capo delle brigate nere, a sua volta un tipo intrattabile. […] Nonostante tutti i dubbi decisi infine di agire contro il professore. Questi e il federale vennero espulsi da Bologna. A entrambi spiegai nel corso di un colloquio che il territorio di Bologna era zona di operazioni e che perciò era indispensabile creare un fronte unico tra gli italiani per puntellare l’autorità degli organi governativi. Poiché loro due si opponevano alla creazione di questo fronte unico, io ero costretto ad allontanarli (F. von Senger und Etterlin, La guerra in Europa, Longanesi & C, Milano, 2002.).

La tortura, strumento per l’umiliazione del nemico nella sua persona, per la profanazione del suo corpo, per la distruzione della sua personalità, divenne sistema. In questo sta una delle chiavi del silenzio che tante partigiane e partigiani hanno mantenuto sulle violenze subite (Si vedano ad esempio le deposizioni davanti alla Corte Straordinaria d’Assise riportate in M. Storchi, Il sangue dei vincitori, cit., e quanto scritto nelle motivazioni delle decorazioni al valore di tante partigiane uccise.), silenzio che mi è stato giustificato con parole che ricordano quelle dei sopravvissuti agli orrori dei campi di sterminio:

Tranne i miei famigliari, che mi hanno visto tornare a casa in quelle condizioni, nessuno mi credeva; dicevano che non era possibile. Così ho smesso di dire il perché e il dove; e poi non volevo più parlare di quello che mi hanno fatto. (Testimonianza di R. Guidi in R. Sasdelli (a cura di), Ingegneria in guerra La Facoltà di Ingegneria di Bologna dalla RSI alla Ricostruzione 1943-1947, CLUEB, Bologna, 2007.)

Non sempre è possibile indicare la collocazione dei luoghi a Bologna nei quali fu praticata la tortura e la milizia che vi operava. La collocazione dei comandi e delle caserme repubblichine non fu in genere resa pubblica (a differenza dei comandi germanici o delle SS, resi pubblici dagli stessi occupanti) quasi che si trattasse di difendere un segreto militare. Fu reso noto un indirizzo, quello della caserma della 23a Brigata nera, quando il 4 ottobre 1944 “il Resto del Carlino” pubblicò un Ordine di mobilitazione a firma del Federale Pietro Torri («ordino la mobilitazione di tutti gli inscritti al Partito Fascista Repubblicano di età compresa dai 16 ai 60 anni […] La presentazione avrà luogo nei giorni 5, 6, 7 ottobre nella caserma della 23a Brigata Nera “R. Rossi” di via Borgolocchi», “il Resto del Carlino”, 4 ottobre 1944.). La stampa cittadina parlò di una caserma della 67a Legione della Milizia in Via S. Mamolo; una caserma in Via del Fossato viene nominata nella lettera con la quale il Commissario straordinario della Provincia di Bologna, a mesi di distanza dall’evento, comunica all’Ateneo l’occupazione della “Scuola d’Ingegneria” da parte della Legione. Le milizie fasciste di Bologna non indicavano il proprio indirizzo nemmeno sulla propria carta intestata. È il caso ad esempio dell’Ufficio politico investigativo (UPI) della GNR, che ebbe varie sedi prima di installarsi anch’essa definitivamente, nell’autunno 1944, all’interno della Facoltà di Ingegneria. Nei rapporti che l’UPI inviò regolarmente al Befehlshaber der Ordnungspolizei in Italien, su ordine dello stesso, mai indicò il proprio indirizzo, mentre tale polizia germanica esibiva tranquillamente il proprio, Viale Aldini 220. Un esempio della diversa coscienza che occupante e collaborazionista avevano della propria autorità e forza.

L’Istituto per la Storia della Resistenza e della società contemporanea nella provincia di Bologna ha tentato di redigere una mappa dei luoghi di tortura a Bologna indicando: Via Albergati 6 e Via S. Chiara 6/3 per le SS, caserma GNR in Via Borgolocchi, sede dell’UPI in Via Mengoli, caserma delle Brigate nere e della CAS in Via Magarotti (oggi Via dei Bersaglieri), caserma della CAS in Via del Piombo, sede della CAS in Via Siepelunga 67, sede del RAP presso la Questura in Piazza Galileo (B. Della Casa (a cura di), Bologna 1938-1945 Guida ai luoghi della guerra e della Resistenza, Aspasia, Bologna, 2005. Va osservato che le SS si trasferirono in Via S. Chiara da Via Albergati, dove si stabilì un battaglione della Waffen Miliz comandato da Giorgio Marzoli.). Vi è una rilevante omissione (la Facoltà di Ingegneria) e inevitabili contraddizioni, essendo la mappa in parte basata sulle testimonianze di partigiani raccolte da Luciano Bergonzini negli anni sessanta del secolo scorso (L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna-Testimonianze e documenti, 5 volumi editi tra il 1967 e il 1980 dall’Istituto per la storia di Bologna.). Ad esempio, l’Ordine di mobilitazione citato contrasta con quella mappa, in quanto colloca le Brigate Nere nella caserma di Via Borgolocchi.

Diverse testimonianze sono tra loro contraddittorie riguardo alla presenza in una data caserma di GNR o Brigate Nere. Ciò potrebbe derivare dal fatto che le vittime accomunavano militi della Guardia e brigatisti neri nell’esercizio della stessa ferocia. Tale “confusione” potrebbe però anche dipendere da un eventuale successione nella presenza delle due milizie in una stessa sede, o da una presenza contemporanea.

  1. Le violenze ad Ingegneria: rimozione e ricordi

È singolare il fatto che in quella mappa non compaia la Facoltà di Ingegneria. La sua sede in Viale Risorgimento, inaugurata nel 1935, all’indomani dell’armistizio fu requisita dai tedeschi che vi installarono i propri Comandi di presidio e di piazza. Poi all’inizio del 1944 divenne sede del Comando della 67a Legione Camicie Nere, che successivamente assunse la dizione di 67a Legione GNR e infine quella, alquanto megalomane dato il continuo diminuire, per l’avanzata degli Alleati, del numero di province controllate dalla RSI, di 629° Comando provinciale della GNR. Dall’autunno successivo ospitò anche l’UPI, dopo che la sua sede di Via Mengoli fu abbandonata alla fine del settembre 1944, quando i repubblichini in gran parte abbandonarono Bologna nel timore dello sfondamento del fronte (Si veda la testimonianza di Nazario Sauro Onofri in R. Sasdelli (a cura di), Ingegneria in guerra, cit.).

Quanto di efferato avvenne dentro l’edificio della Facoltà e negli altri luoghi di tortura ad opera degli aguzzini fascisti non è entrato nella memoria collettiva della città. Oltretutto per Ingegneria mancò l’informazione. Subito dopo la Liberazione i quotidiani cittadini cominciarono ad informare sull’arresto di criminali fascisti, poi riferendo sui loro processi spesso indicarono i luoghi in cui avevano operato. La prima citazione della “Scuola d’Ingegneria” come luogo di torture si ha solo nel resoconto di un processo contro un gruppo di imputati iniziato nel 1948 e fino alla fine di tale anno rimane l’unica citazione. (Così gli uomini di Pifferi massacrarono numerosi patrioti, “Giornale dell’Emilia”, 10 febbraio 1948.).

Si possono ipotizzare anche fenomeni di rimozione alla base della perdita di memoria da parte della Facoltà. Chi aveva operato nella Resistenza si ritrovò dopo la Liberazione con chi aveva esaltato il fascismo (Un collega che fu partigiano di Giustizia e Libertà mi ha raccontato che all’inizio della guerra un assistente durante una esercitazione ordinò agli studenti di alzarsi in piedi per ascoltare la lettura del 100° bollettino di guerra. Si rifiutò affermando che aspettava il 1000° bollettino. Per molti anni la stessa persona, incontrandolo in Facoltà dopo la Liberazione, gli diceva: «partigiani assassini e rubagalline».). Nessuno fu epurato, come dire che nessuno era stato fascista (solo il Preside Puppini non rinnegò la sua adesione durante il ventennio). Poi l’esplodere delle lotte sociali comportò anche nella Facoltà la divisione e la contrapposizione politica tra coloro che pure avevano operato nella Resistenza o collaborato con essa (Un docente che pure aveva collaborato con il CLN dell’Emilia Romagna fu sentito affermare, all’indomani della strage di Portella della Ginestra, che finalmente si cominciava a sistemare i conti.). In Facoltà non si parlò più di fascismo, e quindi di antifascismo e Resistenza.

Va tuttavia dato atto alla Facoltà di avere voluto recentemente, insieme con l’Alma Mater e l’ANPI provinciale, ricostruire quanto avvenuto nella propria sede durante la RSI, e ciò a insegnamento dei propri studenti (G. Masetti, Presentazione, in R. Sasdelli (a cura di), Ingegneria in guerra, cit.).

Per motivi familiari conoscevo qualcosa (ma non le dimensioni tragiche) di quanto era successo dentro ad Ingegneria, e anche questo ha contributo a radicare in me il rifiuto della guerra e a rendermi insopportabile la retorica guerresca. Anche per questo vi sono stati periodi nei quali ho provato un forte disagio nell’entrare in questa Facoltà (dove mi sono laureato e poi ho svolto didattica e ricerca, cosa che continuo a fare anche dopo la pensione). Nel varcarne il cancello non potevo evitare di pensare a quello che mio padre aveva passato lì dentro nel febbraio 1945.

Ricordo giorni dopo la notte tra il 16 e il 17 gennaio 1991, in parte trascorsa nel gelo di una piazza a Bologna in un presidio per testimoniare l’avversione all’inizio di una guerra, la “prima guerra del Golfo”, che si sapeva imminente. Ricordo il fastidio per la disinformazione messa in pratica dai mezzi di informazione: le bombe erano intelligenti e, con precisione chirurgica, colpivano solo obiettivi militari. Fu doloroso per me verificare la capacità di penetrazione di quelle parole vedendo tante persone reagire davanti alle immagini di esplosioni e incendi trasmesse dalla televisione come davanti a un videogioco e dare per certo che non esistessero morti civili, dal momento che erano spariti dai media. Chi chiedeva che se ne parlasse veniva scambiato per strumento di propaganda del tiranno.

Ho ritrovato queste mie sensazioni nelle considerazioni recentemente svolte da De Luna quando, richiamando gli artifizi usati per mascherare il nesso indissolubile tra guerra e morte, e per nasconderne il fine ultimo che consiste nell’uccidere il nemico, sottolinea:

gli aspetti ideologici e culturali, quelli più direttamente legati all’intento di cancellare la morte dalla guerra per disinnescarne i risvolti emotivi più angosciosi. […] così, nella guerra del Golfo del 1991, i servizi d’informazione controllati dagli eserciti occidentali inviavano alle agenzie di stampa fotografie prive di qualsiasi riferimento alla morte dei propri soldati e di quelle dei nemici. Si trattava di una propaganda che utilizzava immagini modellate sulle esigenze di un pubblico abituato a format televisivi e agli spot pubblicitari che davano l’idea di una guerra asetticamente tecnologica, tutta racchiusa nelle scie luminose dei missili e delle bombe che solcavano i cieli notturni delle città irachene. Nulla doveva ricordare la realtà vissuta sul campo, non c’era sangue, orrore, dolore ma solo la rappresentazione della guerra «come un videogame sterilizzato». (G. De Luna, Il corpo del nemico ucciso, cit.).

Il mio disagio nell’entrare in Facoltà è aumentato e si è avvicinato a una forma di sofferenza psicologica quando, sul finire del secolo, un nostro presidente del consiglio ha contributo alla creazione dell’osceno ossimoro “guerra umanitaria” e affermato che la guerra per l’Italia non doveva più essere un tabù, comportandosi di conseguenza nei Balcani. Di nuovo mi sarei ritrovato nelle parole di De Luna:

l’ossessivo moltiplicarsi dei conflitti che hanno accompagnato l’alba del nuovo millennio ha reso quasi indispensabile «la finzione della negazione della guerra», un artificio lessicale che consente di metabolizzarne l’impatto distruttivo, attenuando traumi e lacerazioni, proteggendo gli uomini dalla cruda evidenza degli scempi provocati da altri uomini. Il nocciolo della finzione è quello di rendere possibile ogni guerra chiamandola con nomi diversi […] (Ibidem.).

Le vittime, soprattutto quelle civili, sono state rese invisibili; un artificio lessicale viene applicato le poche volte in cui se ne parla: sono “effetti collaterali”, effetti indesiderati di una terapia, la guerra, adottata per i suoi proclamati effetti benefici.

Una novità preoccupante mi colpì nella rappresentazione politica e mediatica di quella guerra rimandandomi ancora di più ai ricordi familiari: la giustificazione della violenza sulla base di una presunta diversa dignità delle vittime: da piangere i morti “amici”, in quel caso gli appartenenti all’etnia difesa dalla coalizione occidentale; spersonalizzati e sviliti, perché indegni, i morti “nemici”. Ricordo il caso dei giornalisti della televisione di Belgrado morti nel bombardamento della loro sede, per i quali il medesimo presidente affermò di non provare alcuna emozione perché erano stati strumenti di propaganda.

La tortura è pratica clandestina; ad essa si applicano analoghi artifici lessicali se e quando viene alla luce: sono “tecniche di interrogatorio” cui vengono aggiunti aggettivi sterilizzanti, di modo che pratiche di umiliazione dei detenuti o di violazione dei loro corpi sono presentate come legittime e autorizzate.

  1. Torturati e torturatori ad Ingegneria

L’Ufficio politico investigativo fu creato nel 1927 come branca della MVSN con il compito di individuare e segnalare alla Milizia quanto non ancora scoperto della organizzazione comunista. Durante il ventennio fascista fu un organismo poliziesco di scarso peso; rinacque sotto la RSI acquisendo una tragica efficienza nella repressione antipartigiana.

Già durante il regime fascista la Milizia usò frequentemente la violenza contro gli antifascisti irriducibili; anche la Polizia usò sistemi violenti per estorcere informazioni ai “politici” arrestati. Per esempio Dino Sasdelli, mio padre, ebbe un timpano rotto per un cazzotto ricevuto negli anni trenta durante un interrogatorio dentro la Questura di Bologna. Poca cosa, se confrontata con le morti in carcere per le torture durante gli anni del regime e con l’uso sistematico della violenza divenuto pratica abituale da parte dei repubblichini (che anche mio padre avrebbe conosciuto).

Con la Repubblica di Salò l’uso della violenza diventa la norma per il controllo dell’ordine pubblico e per le diverse forze di polizia incaricate di tutelarlo. Sottratte al controllo della magistratura, in competizione fra di loro, le diverse “polizie” esercitano liberamente la violenza sui prigionieri o sui sospettati (M. Storchi, Il sangue dei vincitori Saggio sui crimini fascisti e i processi del dopoguerra (1945-46), Aliberti ed., Roma, 2008.).

Ermanno Mariani, con sintesi efficace, ha parlato di «tortura come strumento politico» (E. Mariani, La tortura come strumento politico e le squadre speciali della RSI in Emilia, in Istituto Mantovano di Storia Contemporanea (a cura di), Fascismo e Antifascismo nella Valle Padana, CLUEB, Bologna, 2007.).

Non sono disponibili, se mai sono esistiti, registri-matricola degli ingressi dei partigiani nelle celle repubblichine, in particolare quelle dentro a Ingegneria. Da varie fonti e da una ricerca personale ho individuato oltre 70 nomi di patrioti che passarono da Ingegneria. Erano operai, contadini, studenti, militari che avevano compiuto una scelta, ciascuno in base a propri motivi. C’era, tra i più “anziani”, chi si era formato politicamente nella lotta antifascista clandestina; c’era chi in famiglia aveva ricevuto un’educazione antifascista e chi invece aveva scelto da solo, rifiutando l’occupazione tedesca e il ritorno dei fascisti che volevano continuare la guerra, o per tenere fede a un giuramento. Almeno cinque furono le partigiane: Gemma Beltrame, Emma Donati, Ines Malossi, Anna Maria Mingardi, Carmelina Montanari. Da varie testimonianze emerge la presenza di molti altri partigiani citati senza nome.

Le celle di Ingegneria si riempirono nel novembre 1944, dopo gli sbandamenti seguiti alle battaglie di Porta Lame e della Bolognina, poi durante l’inverno, durissimo per la Resistenza e la popolazione, in seguito a delazioni o a cedimenti sotto tortura di patrioti arrestati. Finirono nelle celle di Ingegneria partigiani, o sospetti tali, che dopo giorni di interrogatori quasi sempre violenti furono poi inviati a S. Giovanni in Monte sotto l’autorità SS. Da qui molti detenuti uscirono per essere fucilati a Paderno o a S. Ruffillo, o per essere deportati in Germania. Altri dalla Facoltà furono inviati in caserme del nord Italia dove, per “rieducarli”, furono inquadrati in reparti raccogliticci da cui molti disertarono. Scarsa era però la fiducia che i repubblichini nutrivano per questi reparti: li facevano sfilare in armi, ma non consegnarono le munizioni. (Testimonianza di R. Bonora in R. Sasdelli (a cura di), Ingegneria in guerra, cit). Furono portati dentro a Ingegneria anche semplici rastrellati, o persone prelevate dalla strada per non avere indossata la camicia nera o avere fatto un gesto di disprezzo al passaggio di qualche milite.

I partigiani arrestati erano persone normali, con la loro determinazione ma anche con le loro paure, come afferma Oreste Bolelli alla fine di questa sua testimonianza:

Ci portarono a porta Saragozza, nella sede della Facoltà di Ingegneria […]. Per terra c’era solo un po’ di paglia trita e si capiva che molti dovevano essere passati di lì. Faceva un freddo cane e per di più, per tre giorni, non ci diedero da mangiare, né un goccio d’acqua. […] Verso sera ci portarono, uno alla volta, all’interrogatorio. Cominciarono da me. Mi fecero salire su per gli scaloni poco illuminati ed entrare in una stanza dove c’erano cinque o sei persone, fra cui il col. Serrantini e il bastonatore Bruno Monti, che erano lì per l’interrogatorio.

[…] dopo otto giorni, mi mandarono a San Giovanni in Monte, a disposizione dei tedeschi. […] Io fui rinchiuso nella cella n. 8 e quando vidi la brandina mi parve di sognare e di essere in un albergo. […] Durante la mia permanenza nella cella entrarono molti altri partigiani […] Praticamente tutti i giorni era un andirivieni di partigiani che poi passavano agli interrogatori e noi sentivamo ripetere le solite domande: «Sei un gappista o un sappista? Chi sono i tuoi capi?» e poi staffilate e calci e pugni, mentre alcuni tedeschi ridevano e altri imprecavano. […] Quattro o cinque giorni prima di Natale fummo di nuovo interrogati dalle SS. C’era però nell’aria una certa bonomia natalizia e me ne accorsi subito. Io ripetei il solito discorso, feci il meravigliato, dissi che non sapevo niente, che non conoscevo nessuno, che certamente c’era stato un errore. Ci liberarono. Mi parve di rinascere! Io non sono coraggioso e non lo sono mai stato: quello che avevo fatto l’avevo fatto per tener fede al mio impegno politico, ma sempre con tanta paura addosso. Ora mi ero anche liberato dalla paura e tornavo a casa. Dissi fra me e me: «Ora prima di riprendere contatto col movimento clandestino, ci penserò due volte!». Niente da fare: un paio di settimane dopo, a farla lunga, ero di nuovo a contatto coi compagni e tutto ricominciava come prima.

La bestialità dei seviziatori ritorna in numerose altre testimonianze, ad esempio quella di Ildebrando Brighetti:

La torchiatura iniziò alle 14 e durò tre ore consecutive, poi dopo una sosta riprese alle 20 e poi continuò non so quanto. I fascisti cominciarono con un interrogatorio “separato” per sapere la natura dei rapporti tra me e il milite, ma non tardarono a dar sfogo alla loro ben nota bestialità. Pugni, calci, bastonate mi coprirono ben presto di ferite e di sangue. La “seduta” notturna fu quella decisiva: ci misero a confronto e il fascista “cantò”. Mi accusò di averlo indotto a procurare armi ai ribelli. Io risposi che egli non era padrone della sua volontà, che stava “dando i numeri”, ma i torturatori erano ben certi di avere pescato nel sodo. Mi accorsi che era tutta una montatura. Il milite aveva tradito anche noi. Adesso volevano nomi di partigiani, tutte le notizie sui ribelli. Ripresero con maggiore foga. Non riuscivo più a rimanere né in piedi né seduto; loro mi raccoglievano da terra e mi mettevano sulla sedia, senza stancarsi mai di bastonarmi. Non so a che ora la sarabanda finì. (I. Brighetti, Evasi dalla cella della morte in R. Barbieri – S. Soglia (a cura di), Al di qua della Gengis Kahn-I partigiani raccontano, Editrice Galileo, Bologna, 1965.)

I nomi di Serrantini e di Monti, insieme a quelli di altri torturatori, sono citati anche da altri testimoni, ad esempio Augusto Diolaiti:

In questo periodo, e precisamente il 5 febbraio 1945, per opera di un delatore, fui arrestato assieme al compagno Sasdelli del CUMER, seviziato dal cap. Pifferi, dal col. Serrantini e dai commissari Monti e Berti, legato a una sedia, con una maschera antigas tappata sul viso, mentre un sicario dalla corporatura erculea, munito da un lungo nerbo terminante con una catenella di ferro, mi percuoteva alle gambe e ai ginocchi. Quando cadevo svenuto per mancanza d’aria, alzavano la maschera e a calci mi facevano rinvenire per poi ricominciare da capo. Questo supplizio mi veniva applicato tre volte al giorno ogni 24 ore e durò quattro lunghi giorni. (Testimonianza di A. Diolaiti in L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna, cit., vol. III.).

Ramon Guidi, che non ha più rimesso piede in Facoltà, descrive esattamente gli ambienti quali essi sono ancora oggi, quando parla del tragitto percorso fino alla cella e poi per andare agli interrogatori:

Mi portarono a Ingegneria. Ricordo che appena dentro c’era una guardiola; passata la guardiola si girava a destra in un corridoio dove si aprivano diverse porte. Le stanze erano grandi, non so se erano state aule o laboratori. C’era poca luce perché le finestre erano state murate e avevano lasciato solo una piccola apertura in alto. Nella cella dove mi misero saremmo stati in cinque o sei; era stato fatto un piccolo buco nel muro e potevamo parlare con quelli della cella accanto. Più avanti ci trasferirono tutti di là. Non ricordo i nomi di quelli che erano con me; ricordo solo che portarono dentro un certo Romeo che chiese: «Cosa succede qui dentro?» noi gli dicemmo: «Ti metteranno dentro una buca». Questo perché ormai eravamo fatalisti. Di notte sentivamo le urla dei torturati e delle raffiche. Secondo me a Ingegneria sono stati uccisi dei partigiani.

Fuori dalle celle c’era un piccolo giardino; a sinistra di questo, guardandolo, c’erano le scale che mi facevano salire quando venivo portato al primo piano per gli interrogatori fatti a suon di botte e torture. Quando svenivo mi stendevano su una rete da letto appoggiata lì in terra. Ma di queste cose preferisco non parlare, sto male ancora adesso se ripenso a quello che mi hanno fatto. (Testimonianza di R. Guidi cit.).

Delle sevizie subite da Guidi parlò Francesco Leoni in una testimonianza pubblicata poco dopo la Liberazione:

Una notte sentii degli urli che non erano più urli ma rantoli di morente. […] Torturavano Guidi Ramon, un gappista. Lo avevano battuto a nerbate ed era svenuto. I boia ritenevano che simulasse; e per accertarsi dello svenimento, lo misero nudo e lo fecero sedere sopra un fornello elettrico acceso. Provai tanto orrore e dolore che piansi per non so quanto tempo. Dopo qualche giorno mi misero nella cella assieme ai gappisti. Fu allora che imparai a conoscere Ramon Guidi (“Stracchino”) cioè quello che era stato così tremendamente torturato. Con impacchi di acqua fredda cercammo di alleviare il suo male; finalmente dopo qualche giorno cominciava a stare meglio. (F. Leoni, Buona notte babbo, in A. Meluschi (a cura di), Epopea partigiana, SPER, Bologna, 1947.).

Le torture ritornano nella testimonianza resa da Giorgio Righi:

I repubblichini […] mi portarono alla caserma di Via Borgolocchi. Poi mi portarono nell’ufficio di un tale Zanarini, uno anziano che aveva la morte sul cappello, che mi fece chiudere in quella che doveva essere la stalla, perché c’era un cavallo con un carretto e delle balle di paglia. Seduti per terra e appoggiati alle balle c’erano due ragazzi. Uno non ha mai detto una parola, era in brutte condizioni per le botte ricevute. L’altro si era messo una sciarpa attorno alla fronte, era sporco di sangue, e gli usciva sangue dalle orecchie. Si chiamava Mansueto, era un mezzo romagnolo di Imola o Medicina, e mi disse nel suo dialetto di non parlare, tanto anche se parlavo mi avrebbero fucilato lo stesso. Nella caserma di via Borgolocchi presi le prime botte dalle brigate nere e mi fecero anche la tortura della maschera antigas tappata.

Due giorni dopo, caricato su un camioncino 1100 […] fui trasferito alla Facoltà di Ingegneria. […] Si dormiva sul pavimento, era fatto di piastrelle esagonali, coperto con della paglia. Venni percosso e seviziato per ore e molti giorni. Ricordo i nomi di alcuni di quegli aguzzini: il tenente Bruno Monti, il maresciallo Berti (aveva fatto infiltrare due suoi fratelli nei partigiani ma erano stati smascherati e un gappista li aveva uccisi; lui diventava ancora più bestia quando aveva un gappista davanti) e un tale Biavati che chiamavano “Fedullo”, come il giocatore del Bologna dei “tempi d’oro”. Mi sembra di averlo davanti, questo bastonatore: aveva un maglione nero, che portava con le maniche rimboccate, con davanti una gran testa di morto bianca, i calzoni neri “alla cagarella” e sopra i calzettoni bianchi. La prima volta venni portato al primo piano nell’ufficio di Berti che era nell’Istituto di Elettrotecnica; entrando nell’Istituto c’era l’ufficio di Monti, poi quello di Pifferi e poi quello in cui stavano Berti e Biavati. Berti mi disse più o meno: «Alla Borgolocchi le hai prese sulla schiena, qui te le diamo sulle gambe. Attento, se ti copri ti arriva un calcio in faccia». Infatti il calcio me l’ha dato, spaccandomi il setto nasale e la faccia vicino all’occhio. «Portatelo a lavarsi», disse, e poi mi portarono di nuovo davanti a lui. (Testimonianza di G. Righi in R. Sasdelli (a cura di), Ingegneria in guerra, cit.).

La “tortura della maschera antigas tappata” citata da Diolaiti e da Righi è stata descritta da Dino Sassatelli (quasi omonimo di mio padre) che la subì dalle SS nella loro sede di Via S. Chiara:

Allora mi misero una maschera antigas col tappo chiuso: avevo le mani legate dietro alla schiena e sentivo mancarmi il respiro. Mi diminuivano le forze quando non capii più niente e stramazzai al suolo trascinandomi la sedia addosso. I tedeschi mi avevano tolto la maschera e sentivo il respiro che veniva a sbalzi, sembrava che il corpo si lacerasse. Quando aprii gli occhi sentii i tedeschi che gridavano: «Allora dove hai le armi?». Mi sembrava di essere venuto da un altro mondo. (Testimonianza di D. Sassatelli in L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna, cit., vol. V.).

I fascisti, per fiaccare i detenuti, dopo le torture inscenavano finte fucilazioni, come ad esempio ha raccontato Dino Sasdelli:

Fui portato alla Facoltà di Ingegneria dove c’era il covo delle brigate nere e, appena giunto, fui rinchiuso in un vasto camerone assieme ad altri detenuti, quasi tutti patrioti. […] Non saprei dire i nomi di quelli che compivano gli interrogatori, che di solito venivano fatti di notte, in un locale quasi buio. […] Durante l’interrogatorio mi tolsero le scarpe e, tenendomi le braccia legate dietro la schiena, mi pestavano i piedi con i loro scarponi, mentre mi colpivano in tutto il corpo con pugni e staffilate con nervi di bue. Mi ricordo che una notte mi fecero uscire dalla Facoltà e mi portarono in un posto in cui era già stata preparata una fossa; ero accompagnato da cinque brigatisti armati i quali, fermandosi, mi indicarono la fossa. Il loro capobanda mi disse: «Devi dire la verità, così avrai salva la vita; altrimenti ti facciamo a pezzi e questa sarà la tua tomba». Ma poiché avevo già una certa esperienza di certi metodi di interrogatorio […] non fui intimorito per nulla e continuai a negare. Così mi riportarono indietro e, strada facendo, mi percossero col calcio del moschetto ed erano tanto arrabbiati che temetti ogni cosa. (Testimonianza di D. Sasdelli in L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna, cit., vol. III.).

Sasdelli e altri partigiani parlano di Ingegneria come “covo”, come sede del comando delle Brigate Nere. Ma, è documentato, lì vi fu il Comando provinciale della GNR; Serrantini dirigeva l’UPI della GNR e della GNR facevano parte tutti gli altri seviziatori citati dai partigiani nelle varie testimonianze che sono state raccolte in epoche diverse. Vi è però anche la testimonianza di un milite delle Brigate Nere che afferma di essere stato dentro ad Ingegneria fino al momento della fuga da Bologna il 20 aprile 1945. (Testimonianza di Q. Marchesini cit.). Evidentemente, non tutti i brigatisti neri seguirono Torri e Pagliani cacciati da Bologna.

L’opera di delatori e di pochi, tra partigiani e staffette, che divennero agenti fascisti causò numerose vittime nell’inverno 1944-45. Altri arresti furono dovuti al cedimento di partigiani a causa delle torture subite. I tedeschi non li graziarono quasi mai; per qualcuno sono state riservate parole di pietà:

Con me la scampò anche l’amico Diolaiti, mentre tutti gli altri, una ventina, vennero deportati o uccisi a San Ruffillo. Tra questi ultimi vi fu anche il povero Faccioli: era giovane, non aveva esperienza e non aveva resistito alle torture ed alla paura di essere ucciso. Per questo aveva parlato e me lo disse quando mi arrestarono. Gli dissi che avrebbe potuto essere più generico sul luogo dell’appuntamento. Del resto anch’io so bene cosa sono le torture: quando mi rilasciarono era trascorso quasi un mese dal mio arresto e per tutto questo tempo ero stato continuamente torturato. (Testimonianza di D. Sasdelli cit.).

Tra coloro che parlarono per le torture ed ebbero salva la vita vi fu chi rimase vittima della vendetta nei giorni della Liberazione:

Chi andava agli interrogatori veniva portato giù; ce n’era di quelli che tornavano massacrati dalle botte. Quel poveretto di Annibale [Gruppioni] non fu capace di resistere e si mise a fare dei nomi. Se cominciavi a parlare eri finito perché i fascisti mica si accontentavano: volevano sempre altri nomi. Continuarono a torturarlo e lui cominciò anche a fare nomi di gente che non c’entrava per niente. Mi sembra che dopo la liberazione sia stato ucciso dai partigiani. (Testimonianza di A. Rambaldi in R. Sasdelli (a cura di), Ingegneria in guerra, cit.).

II  24 aprile [1945] a Bologna imparai che Annibale Gruppioni era stato ucciso il giorno della liberazione lì dal ponte di via Libia e girava voce che fossi stato io. Io dissi: «Guardate che io ero ancora a Como». Penso che girasse quella voce perché ero stato arrestato per colpa sua. […] Gruppioni fece tanti nomi e alla fine arrivarono anche a me e ai Tonini. A parte il fatto che ero a Como, io non lo avrei ammazzato. Lo vidi dentro a Ingegneria, era sdraiato in terra, si alzò la maglia ed era pieno di frustate (Testimonianza di F. Gamberini in R. Sasdelli (a cura di), Ingegneria in guerra, cit.)

  1. Processi e amnistia

I procedimenti davanti alla Corte Speciale d’Assise di Bologna contro seviziatori e mandanti che operarono a Ingegneria sono rubricati nell’Archivio di Stato di Bologna ma i relativi fascicoli mancano. Le pagine di cronaca dei quotidiani cittadini consentono tuttavia di ricostruire le vicende di alcuni di essi, dagli arresti ai processi.

Angelo Serrantini e Gaspare Pifferi sfuggirono all’arresto. Su Serrantini, il capo dell’UPI dentro ad Ingegneria, erano caduti i sospetti degli stessi repubblichini per l’assassinio dei 4 professionisti bolognesi Busacchi, Maccaferri, Pecori e Svampa (Pavolini svolse a Bologna un’inchiesta sulla morte dei quattro professionisti e raccolse voci su un possibile coinvolgimento di Serrantini: «Per dire tutto, accennerò che il Fortunati, capo dell’Ufficio politico della Questura, in una riservata conversazione col Capo della Provincia, ebbe ad accennargli la probabilità che, ove si trattasse di una esecuzione “fascista”, l’autore dovesse essere il Serrantini, capo dell’ufficio politico investigativo della GNR» (A. Pavolini, Appunto per il Duce, 6/12/44-XXIII, in ISPER, Fondo Masulli, b. 1 f. 1).). La loro morte aveva suscitato forte emozione anche negli ambienti “moderati” del fascismo bolognese che diedero scarso credito al tentativo di attribuirne la responsabilità ai partigiani.

Serrantini all’inizio degli interrogatori amava mostrare un atteggiamento legalitario; teneva un «contegno, apparentemente cordiale e gentile, [che] era in netto contrasto con il trattamento che egli ordinava di far subire ai detenuti» (Un eroico episodio della lotta di liberazione, “Corriere dell’Emilia” del 2 maggio 1945.):

Vennero a prendermi, e mi condussero alla Facoltà di Ingegneria, a Porta Saragozza, dove aveva sede il comando delle brigate nere. Il colonnello Sorrentino [leggi: Serrantini] appena mi vide così conciato cominciò a urlare che – quante volte doveva ripeterlo?- la violenza non era ammessa negli interrogatori. Si vedeva lontano un chilometro che faceva la commedia. Cominciò a sua volta a farmi delle domande, ma quando sentì che insistevo sulla storia dello sfollamento e del vino, in preda alla collera esclamò: «Allora, ragazzo mio, sei tu che vai a cercare i guai: hanno fatto bene a legnarti». Entrò seduta stante nella sala un altro milite con in mano un altro manganello; cominciò a farlo volteggiare sopra alla mia testa con il proposito di intimorirmi. Ad un cenno dell’ufficiale una gragnola di colpi mi investì. (I. Brighetti, Evasi dalla cella della morte, cit.).

Dopo una decina di giorni venni interrogato da uno che si diceva fosse il colonnello Serrantini; questi, vedendomi in quelle condizioni, mi chiese chi fosse stato a ridurmi così ed io gli risposi che erano stati i suoi uomini. Anche costui mi interrogò per qualche ora poi, vedendo che da me non riusciva ad imparare niente, mi fece portare nelle carceri di San Giovanni in Monte, con queste parole: «A noi tu non vuoi dire la verità, così io ti consegno alle SS tedesche che avranno certamente la medicina per farti parlare». (Testimonianza di D. Sasdelli cit.).

Nei giorni successivi alla Liberazione Serrantini si trovava a Brescia e sfuggì a un rastrellamento operato da partigiani comandati da Giacomo Masi e si rese irreperibile (Testimonianza di G. Masi in L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna, vol. III, cit.). L’11 ottobre 1947 il “Giornale dell’Emilia” sotto il titolo Una sentenza di morte prevista per Serrantini pubblicò la notizia dell’imminente processo (sarebbe iniziato dopo due settimane) contro il latitante e l’elenco dei principali tra i suoi 22 capi d’imputazione. L’articolo non conteneva alcun cenno alla sua attività dentro alla Facoltà di Ingegneria. Sul processo, se mai iniziò, non furono pubblicate notizie fino a tutto il 1948.

Le notizie sugli ultimi movimenti del capitano della GNR Pifferi (molti partigiani ricordano di essere stati picchiati da lui con un nerbo di bue) sono di fonte repubblichina. Nel marzo 1945 era al comando della 1a Compagnia Arditi, inquadrata nella Divisione GNR “Etna”, schierata a sud di Pianoro nella zona di operazioni della 65a Divisione di fanteria tedesca; suoi legionari presero parte ad azioni di retroguardia ancora il 18 e il 19 aprile per poi ripiegare verso la Facoltà:

Entro la notte sul 21, con un autocarro distaccato dal Deposito, poté essere raggiunta Via Risorgimento, a Bologna. Il Reparto e l’intero Comando abbandonarono la loro città insieme a una colonna che comprendeva anche altre formazioni RSI e affiancava la 65. ID verso San Giovanni in Persiceto.

Il 23 aprile, attraversato il Po con un barcone, proseguirono la fuga verso Mantova poi verso Treviglio. Il primo maggio Pifferi sciolse il reparto a Urago d’Oglio nel bresciano e fece perdere le proprie tracce. (ACTA dell’Istituto Storico Repubblica Sociale Italiana, anno V, n. 3, settembre-novembre 1991.)

Nel processo il P.M. chiese la condanna a morte, da commutarsi in ergastolo, per Pifferi (latitante) e altri due coimputati. La richiesta fu accolta e i difensori presentarono immediatamente ricorso in Cassazione (La pena di morte richiesta per Pifferi, Camporesi e Beccherini, “Il Progresso d’Italia”, 27 febbraio 1948; Pifferi e Camporesi condannati all’ergastolo. Severe pene anche agli altri della banda, “Giornale dell’Emilia”, 3 marzo 1948.). I quotidiani cittadini non riportarono i capi di imputazione a carico di Pifferi, ma solo quelli a carico dei coimputati, tutti suoi subordinati. Per tutto il 1948 non furono più pubblicate notizie relative all’esito del ricorso in Cassazione e all’eventuale processo d’appello. Martino Berti

accusato di collaborazionismo e di abusive requisizioni, d’aver compiuto arresti sui quali aveva compiuto sevizie, d’essere stato in servizio nella g.n.r. e nella polizia germanica […] Benché il Berti opponga dinieghi e reticenze, ammette tra l’altro di avere fatto opera di delazione e di avere compiuto sevizie in danno di partigiani (Alle Assise straordinarie. La morte di un responsabile nell’uccisione di patrioti, “Giornale dell’Emilia”, 18 agosto 1945.) operò dentro Ingegneria e nel comando SS di Via S. Chiara; fu processato davanti alla Corte Straordinaria d’Assise di Bologna nell’agosto 1945 e condannato a morte. Cassata la sentenza nel mese seguente, fu condannato a 13 anni e 4 mesi nel processo d’appello svoltosi nell’aprile 1946, poi beneficiò dell’amnistia.

Di Giovanni Pasquale Camporesi detto “Carnera” hanno parlato anche partigiani torturati dentro a Ingegneria. Ad esempio Mario Cènnamo: «Le botte, tra il primo e secondo viaggio, erano state tante specie quelle che arrivavano dalle manacce e dai piedoni del sergente Camporesi, in arte Carnera» (Testimonianza di M. Cènnamo in R. Sasdelli (a cura di), Ingegneria in guerra, cit.), o Anna Maria Mingardi:

Il Presidente ordina lo sgombero dell’aula e il proseguimento del dibattito a porte chiuse. Sale sulla pedana la partigiana Anna Mingardi, che depone su fatti innominabili. Infatti nel novembre 1944 in Bologna il ten. Bernardi e il serg. Camporesi, recatisi nella casa del patriota Armando Mingardi per procedere alla sua cattura, non trovandolo, arrestarono la di lui sorella Anna la quale venne ripetutamente ingiuriata, percossa, maltrattata e minacciata di morte affinché rivelasse il luogo ove era nascosto il fratello. Venne quindi sottoposta ad atti lubrici da parte dei cinque militi […]. (Una partigiana rievoca le sevizie che le inflissero i banditi di Pifferi, “Il Progresso d’Italia”, 8 febbraio 1948.)

Camporesi, coimputato del latitante Pifferi, fu come questi condannato all’ergastolo. Ricorse in Cassazione contro la sentenza, ma anche di questa vicenda non si parlò più per tutto il 1948.

Bruno Monti fu processato e condannato a morte per 36 capi d’imputazione nel marzo 1946. Nel maggio successivo la sentenza fu cassata e Monti fu di nuovo processato a Modena, dove il PM non ammise testimoni d’accusa ma solo testi a difesa. Fu condannato all’ergastolo poi per amnistie anch’egli tornò libero.

Il caso di Lidia Golinelli, “Vienna”, fu quello che probabilmente creò maggior scalpore e indignazione a Bologna. Staffetta della 7a GAP, dopo l’arresto divenne ausiliaria della GNR e operò al servizio dell’UPI acquistando una triste fama. Fu condannata a morte nell’agosto 1945 e nell’agosto 1946 uscì dal carcere per l’amnistia. Temendo ritorsioni rimase in carcere ancora due settimane:

Alcuni giorni fa un quotidiano modenese dette la notizia che una ex-fascista amnistiata rifiutava di beneficiare dell’amnistia e di uscire dal carcere. La spiegazione di questo strano fenomeno appariva ben chiara e si poteva individuare non già in una crisi di coscienza, bensì in una folle paura di essere linciata dai parenti di una qualche sua vittima. Trattasi della ben nota Golinelli Lidia attiva collaboratrice dei tedeschi, repubblichina e delatrice di patrioti. […] A causa della recente amnistia le feroce fascista, non si sa bene come, ha avuto il condono tanto che già da qualche giorno avrebbe dovuto uscire. (In barba anche all’amnistia. La famigerata spia “Vienna” non vuole uscire dal carcere, “Il Progresso d’Italia”, 7 agosto 1946.)

I malumori e l’indignazione causati dall’amnistia da lui firmata, e dall’applicazione che ne fece la magistratura, furono affrontati da Togliatti in un discorso tenuto a Reggio Emilia il 25 settembre 1946. Prese inizialmente l’argomento da lontano:

Noi l’amnistia l’avevamo promessa prima delle votazioni; l’avevamo promessa noi, […] l’avevano promessa tutti i partiti democratici. Occorre quindi dire che non potevamo non mantenere quella promessa, quella promessa della quale, pare, alcuni compagni non se ne siano accorti o l’abbiano intesa come un’astuzia per attirare voti.

Ma voi sapete che la nostra politica non è fatta di astuzia, noi non diciamo una cosa per fare il contrario, questa è una concezione sbagliata. (Il testo integrale del discorso è stato pubblicato come Un partito di governo e di massa, in P. Togliatti, Politica nazionale e Emilia rossa, a cura di L. Arbizzani, Editori Riuniti, Roma, 1974.)

Con l’ultima frase sembra velatamente ripetere l’accusa di doppiezza al gruppo dirigente della federazione (in particolare, il segretario) reggiana del PCI a proposito de «i fatti di sangue che sono avvenuti qui» (Nella parte iniziale del discorso la critica è diretta: «il fatto che avvenimenti simili hanno potuto succedere, e ancora oggi non sappiamo se essi possono o no ancora ripetersi, questo fatto fa ricadere sul nostro partito una parte di responsabilità. Il partito non doveva soltanto limitarsi a pronunciarsi contrario a questi fatti quando essi erano già avvenuti […]», cfr. P. Togliatti, Un partito di governo e di massa, cit.). Entrando nel merito dell’amnistia, Togliatti sviluppa un ragionamento che per Massimo Storchi è «chiaro, al limite del cinismo» (M. Storchi, Il sangue dei vincitori, cit.):

Quindi dovevamo fare l’amnistia e l’abbiamo fatta. L’amnistia doveva mettere in libertà dei fascisti e non poteva mettere in libertà dei fascisti che non avevano fatto niente; allora non sarebbe stata un’amnistia. L’amnistia è stata il risultato di un dibattito politico […] Badate che io non ritengo che l’amnistia sia stata una cosa disastrosa. Vi faccio però notare che quando la magistratura vuol fare una cosa la fa. Noi abbiamo fatto un decreto di amnistia e lo abbiamo affidato a quella magistratura che era favorevole al fascismo e che l’avrebbe applicato come essa voleva. Ma non potevamo fare diversamente in un regime democratico borghese. […] Io prevedevo il modo in cui sarebbe stata applicata, era assurdo non prevederlo […] sapevamo che ci sarebbero stati alcuni casi che avrebbero offeso l’opinione pubblica. Ma noi intendevamo che l’amnistia doveva essere data per motivi politici […] dovevamo mostrare ad alcuni strati del ceto medio […] che la repubblica e particolarmente il nostro partito […] sanno mettere termine a certe forme di repressione, che parte dell’opinione pubblica cominciava a dire che bisognava limitare.

Il riferimento finale è ai provvedimenti che avevano posto un termine ai procedimenti di epurazione e all’attività delle Corti straordinarie d’assise. Il ragionamento viene poi concluso con l’affermazione che è stata fatta giustizia:

il partito sbagliò; vi fu una reazione esclusivamente sentimentale la quale si basava sul modo di applicazione dell’amnistia. Il fatto è che non si è capito che i fascisti sono stati puniti e giustamente puniti.

In realtà, non fu fatta giustizia, la stragrande maggioranza degli aguzzini che avevano torturato e ucciso partigiani restarono sostanzialmente impuniti. Anche a Bologna, già prima del discorso citato, imputati che avevano compito reati gravissimi erano tornati in libertà grazie alla revisione dei processi di primo grado e all’applicazione dell’amnistia. In tutta Italia la Cassazione demolì moltissime sentenze:

[La Cassazione] per consentire l’applicazione più generalizzata possibile dell’amnistia […] trasformava sevizie raccapriccianti commesse dai torturatori fascisti in incidenti involontari: nella sentenza «Carrera», si sosteneva che non era da considerarsi sevizia particolarmente efferata appendere per i piedi un partigiano e giocare a calci con la sua testa che penzola […]. Per amnistiare un capitano delle Brigate Nere che dopo l’interrogatorio di una partigiana «l’aveva fatta possedere dai suoi militi, uno dopo l’altro, bendata e con le mani legate», la motivazione della sentenza arrivava a affermare: «Tale fatto non costituisce sevizia ma solo la massima offesa all’onore e al pudore di una donna» (G. De Luna, Il corpo del nemico ucciso, cit.).

Alla fine degli anni quaranta quasi tutti i fascisti di Salò responsabili di reati gravissimi si ritrovarono liberi e, archiviati i processi ai fascisti, il processo contro il fascismo non fu mai avviato. Al contrario, cominciarono i processi contro “quei delinquenti dei partigiani”. Il deficit etico e politico e la conseguente ambiguità che oggi alimentano revisionismo e rivalutazione del regime fascista e della Repubblica di Salò nascono in quegli anni:

il fascismo non fu sradicato dalla società nazionale, l’amnistia avrebbe cancellato ogni responsabilità […] Un avvio difficile e ambiguo per il nuovo Stato repubblicano, che aveva scelto la strada della continuità e della rimozione per ricostruire un Paese devastato dalla guerra. […] la mancanza di una giustizia “vera” [ha] rappresentato un deficit etico e politico nella costruzione di una comune identità repubblicana (M. Storchi, Il sangue dei vincitori, cit.).

Va infine osservato che da parte delle organizzazioni della Resistenza la memoria a Bologna è stata coltivata sulle battaglie (dell’Università, di Porta Lame, della Bolognina) e sui partigiani caduti. Essi sono ricordati nel Sacrario di Piazza Nettuno; per diversi di essi sono stati posti cippi o lapidi. Mancano invece epigrafi che indichino tanti luoghi di detenzione e tortura. Tre soli fanno eccezione: alle Caserme Rosse di Via Corticella diverse lapidi ne ricordano l’uso come luogo di transito verso i lager nazisti; una lapide, sulle mura dell’ex carcere di S. Giovanni in Monte, ricorda l’azione dei GAP che nell’agosto 1944 liberarono i partigiani ivi detenuti (ma nulla dice sulle torture inflitte lì dentro dalle SS); un’altra lapide, appena dentro Palazzo d’Accursio venendo da Via Ugo Bassi, ricorda l’opera dell’OVRA durante il ventennio fascista. Anche questa mancanza di forme pubbliche che ricordino la ferocia repubblichina gioca a vantaggio del revisionismo.

A sessanta anni dalla promulgazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che recita: «Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti», e a venti dalla promulgazione del trattato internazionale che recepisce l’articolo citato, lo Stato italiano non considera la tortura un delitto. Ciò è stato anche sottolineato nella motivazione della sentenza relativa alle violenze commesse nel 2001 dalle forze dell’ordine a Bolzaneto.

Autore: Comandante Lupo

Ho ricercato e raccolto storie di vita, di guerra, di resistenza. Ne ho pubblicate, altre sono ancora da scrivere. Sono sempre alla ricerca di nuove storie se vuoi aiutarmi nella ricerca contattami.

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