Anteo Zamboni


Nasce l’1/2/1911 a Bologna. Aderente allʼorganizzazione giovanile fascista, il 31/10/26 venne trucidato all’incrocio tra via Rizzoli e Indipendenza, un istante dopo che un colpo di rivoltella fu sparato contro Benito Mussolini, capo del governo, che su unʼauto stava dirigendosi verso la stazione ferroviaria dopo due giorni di permanenza nella citta.

Giovanetto di 15 anni e 10 mesi, discendente da famigliari anarchici, fu colpito da fascisti che 1’attorniavano con 14 pugnalate e un colpo di pistola e poi colpestato, sputacchiato e semispogliato.
Venne quindi incolpato, all’istante e dopo, dell’attentato.
I suoi familiari, a partire dal padre furono arrestati ed incolpati di complicità. Il caso bolognese fu preso a pretesto per nuove misure reazionarie del governo fascista: il 9/11/26 furono dichiarati decaduti dal mandato parlamentare 120 deputati dell’opposizione; il 25 dello stesso mese furono approvati i provvedimenti eccezionali contro gli antifascisti e la istituzione del Tribunale speciale, andati in vigore a partire dal 6/12/26.

Nell’angolo di Palazzo dʼAccursio a Bologna che guarda il trivio da cui parte via dellʼIndipendenza è stata murata la seguente epigrafe:

«Bologna di popolo
congiuntamente onorando
i suoi figli immolatisi
nella ventennale lotta antifascista
con questa pietra consacra nei tempi
Anteo Zamboni
per audace amore di libertà
qui trucidato
martire giovanetto
dagli scherani della dittatura».

A Anteo Zamboni è stata intitolata una strada di Bologna.

L’attentato
La sera di domenica 31 ottobre 1926, quarto anniversario della Rivoluzione fascista, Mussolini si recò a Bologna per inaugurare lo Stadio Littoriale. Appostatosi in piazza del Nettuno, Anteo Zamboni sparò contro di lui, mancando il bersaglio.
Il maresciallo Francesco Burgio, presente all’attentato, testimoniò:
« Mi trovavo come spettatore accanto ai militari di prima linea che erano di cordone, presso l’angolo di via Rizzoli e di via Indipendenza, quando giunse il corteo presidenziale. Mentre dalle finestre dei palazzi cadevano fiori sull’automobile del Duce, un individuo, allontanato bruscamente un soldato del cordone, ha allungato il braccio destro in direzione dell’on. Mussolini facendo l’atto di sparare. Per fortuna un maresciallo dei carabinieri, il sig. Vincenzo Acclavi, del nucleo di Trieste, dava un brusco colpo al braccio dello sconosciuto; così che il colpo, esploso in quel momento, deviava e il Duce sfuggiva per miracolo al criminoso gesto dell’attentatore. Fra i primi ad afferrare lo sparatore furono un tenente del 56º fanteria ed alcuni squadristi. »
(Dalla testimonianza del maresciallo maggiore Francesco Burgio)

La ricostruzione dell’evento e delle conseguenze di Claudio Santini
La città è addobbata con tricolori e fasci. Gli oppositori del Duce, noti, sono stati preventivamente posti sotto custodia. Gli squadristi invadono le strade e si mescolano alla folla incuriosita per la celebrazione del gran rito mussoliniano.
Bologna è sede della più imponente manifestazione militare per la commemorazione del quarto anniversario della marcia su Roma e in quest’occasione è pure usato, per
la prima volta, il nuovo stadio, in cemento armato, il più capiente d’Italia, voluto dal ras Leandro Arpinati.
Sono quasi le 17,40 del 31 ottobre 1926 e sta per concludersi la visita di 24 ore del Capo del Governo. Il corteo di auto – con Sua Eccellenza diretto alla stazione – percorre Piazza Nettuno prima di imboccare Via Indipendenza fra ali di folla acclamante.
«L’accoglienza di Genova è stata ancora più calorosa» commenta un giovanetto, rivolgendosi a un militare del servizio d’ordine.
«Forse lei è di Genova?».
«No, di Parma».
Lo scarno scambio di battute avviene sotto l’occhio del primo portico del Canton dei Fiori, di fronte al negozio di ombrelli, prima del bar e della Coroncina. Il giovane non sarà mai identificato; il militare è Carlo Alberto Pasolini, di famiglia ravennate, 34 anni, nato a Bologna, entrato nell’esercito per “tirare avanti” dopo un dissesto economico.
È stato in Libia e poi, durante la Grande Guerra, in Friuli dove ha conosciuto Susanna Colussi che, diventata sua moglie, gli ha dato due figli: Pier Paolo e Guido. La famiglia è stata a Bologna dal 1921 al ‘25 (qui è nato il primogenito) poi ha peregrinato per più città a causa dei cambi di sede militare. Sergente del 55° Fanteria, Carlo Alberto è tornato sotto le Due Torri per servizio: comanda la compagnia che fa i cordoni di protezione al Duce, all’inizio di Via Indipendenza, nell’ambito delle misure di sicurezza che impegnano 3900 soldati, 3050 membri della Milizia, 500 carabinieri, 350 poliziotti. L’imponente vigilanza è giustificata dai tre attentati che Mussolini ha già subito in meno di un anno: il 4 novembre ‘25 con la congiura di Zaniboni-Capello, sventata tre ore prima di essere messa in atto; il 7 aprile ‘26 con il colpo di pistola dell’irlandese Violet Gibson; l’11 settembre con la bomba di Gino Lucetti a Roma.
Ma ecco che arriva l’Alfa rossa, bassa, aperta, guidata da Arpinati affiancato dal Duce con, dietro, Dino Grandi e il sindaco Umberto Puppini. É preceduta da Carabinieri a cavallo e seguita dalla vettura con il quadrunviro De Bono, il prefetto De Vita, il sottosegretario Teruzzi e le guardie del corpo – Balbo, Bonaccorsi, Ricci e Reggiani- sui predellini.
Al Canton dei Fiori rallenta, quasi si ferma, e in questo momento echeggia un colpo di pistola. Il proiettile sfiora ma non ferisce il Duce. Il tenente Pasolini distingue l’attentatore e gli afferra il braccio, aiutato dal pattugliante Giovanni Vallisi che strappa la rivoltella. La scorta di Mussolini (Bonaccorsi in testa) si avventa sul ragazzo che è trascinato dall’altra parte della strada davanti al Bar Centrale.
I pugnali fascisti escono dai foderi al grido di “Morte!”. Un altro giovane si salva perché Pasolini interviene: “Lui non c’entra!”. L’auto col Duce riparte per la stazione.
Il presunto attentatore, colpito a gragnola dai pugnali, è scaraventato dall’altra parte di Via Ugo Bassi, ai piedi di Palazzo d’Accursio, dove si accascia.
Sono le 18,30 quando il corpo è portato in una stanza della vicina Polizia poi all’obitorio in Certosa, dove, ore dopo, è riconosciuto dal padre. Si chiama Anteo Zamboni, ha 15 anni e 8 mesi ed è figlio di Mammolo e Viola Tabarroni che
vivono con la sorella di lei, Virginia, in Via Fondazza 14. I suoi fratelli sono Assunto, 20 anni, militare a Milano e Lodovico, 18, aiutante del padre in tipografia. Il capofamiglia è stato anarchico, la cognata pure, ma ultimamente Mammolo, amico di Leandro Arpinati, si è convertito al fascismo ed è azionista della Casa del Fascio; Anteo è iscritto ai balilla; Lodovico al circolo rionale fascista. In questo contesto, l’atto attribuito al giovanetto è politicamente inspiegabile.
Ma è stato proprio lui a sparare? Il tenente Pasolini, interrogato, dice che chi ha esploso il colpo ha allungato il braccio armato, da dietro, “sopra la mia spalla sinistra”.
Altri però – fra cui lo stesso Mussolini – che “era circa un metro avanti alla truppa”. Il militare può avere addomesticato la sua ricostruzione per non ammettere che l’attentatore ha superato il cordone di sicurezza affidato alla sua vigilanza. Molto probabilmente è proprio così, ma le versioni dei testimoni non concordano nemmeno su com’ era vestito chi ha fatto fuoco: di chiaro, no di marrone scuro, col cappello floscio, no con la berretta, in giacca, no col gabardine… E la pistola, inceppata, col caricatore pieno, in grado di essere usata solo con un nono colpo in canna… E il proiettile a zig-zag fra il petto del Duce e la manica sinistra della giacca del Sindaco, compatibile con la 7,65 strappata a Zamboni, ma non con la Mauser trovata sotto il suo corpo…
L’inchiesta giudiziaria punta inizialmente su un paio di frasi “storiche”, esaltanti il tirannicidio, riportate da Anteo su un quadernetto trovato in casa, e incrimina, in stato di detenzione, tutta la famiglia Zamboni che ha precedenti anarchici e ha custodito, in tipografia, la 7,65 strappata ad Anteo, più un’altra rivoltella. Dopo tre settimane la magistratura ordinaria bolognese deve però trasmettere il caso a Roma, all’appena istituito Tribunale speciale per la difesa dello Stato, che indaga per altri sette mesi e conclude con un’inattesa richiesta dell’avvocato generale militare: azione penale estinta per Anteo, morto, e non luogo a procedere a carico dei suoi familiari. I vertici fascisti fremono e la commissione istruttoria li placa disponendo un supplemento di indagini, affidate all’avvocato militare di Bologna.
In questa fase cominciano a circolare – partendo dal Friuli – voci su un possibile complotto fascista che avrebbe potuto vedere il giovane Zamboni complice inconsapevole o vittima sacrificale. I duri del regime si sono esposti col delitto Matteotti e lamentano di essere stati scavalcati dai “normalizzatori”. Roberto Farinacci, difensore, ha perso la carica di segretario generale del PNF una settimana dopo la fine del processo che, nel marzo ‘26, ha condannato (sia pure con successiva amnistia) anche Albino Volpi che poi si è avvicinato a risoluti dissidenti milanesi. L’intero gruppo del fascismo estremo era presente a Bologna – pur senza invito ufficiale- il giorno dell’attentato. Poi si sparla pure di Arpinati e del suo presunto “braccio armato” Arconovaldo Bonaccorsi, primo pugnalatore di Anteo. In questo quadro di possibili legami pericolosi, l’indagine si insabbia e il complotto – del quale ormai troppi parlano – è collocato nell’ ambito della sola famiglia Zamboni. Lodovico è complice del fratello.
Ma il processo del settembre 1928 assolve Lodovico per insufficienza di prove e ugualmente condanna Mammolo e Virginia a 30 anni, con un verdetto inspiegabile contro il quale Viola, libera, invoca la revisione, impegnando l’avvocato bolognese Roberto Vighi.
Il nuovo difensore – succeduto ad Angelucci, Nicolai e Mastellari- riporta alla ribalta anche il tenente Pasolini per l’incontro col ragazzo “di Parma” che “era stato a Genova”.
“Anteo era bolognese e non è mai andato in Liguria”. Ma niente da fare: ricorso non ammissibile. Allora, ultima strada con un memoriale a Mussolini, affidato a Leandro Arpinati, amico di famiglia degli Zamboni ed entrato nel Governo, dopo essere stato podestà di Bologna.
Sul colloquio fra il Sottosegretario agli Interni e il Duce c’è una ricostruzione postuma forse vera, forse solo verosimile o dedotta o immaginata. -Sai che sono innocenti. –Se lo fossero, non sarebbero stati condannati. – No, sono dentro
solo perché tu li hai fatti dichiarare colpevoli.
Sia come sia, Mammolo è graziato il 24 novembre 1932 e Virginia un mese dopo. Contestualmente inizia il declino politico di Arpinati, entrato in rotta di collisione col segretario Achille Starace che, in una lettera-requisitoria a Mussolini, gli imputa alcuni atteggiamenti “non escluso quello assunto in occasione dell’attentato di Zamboni e durante il processo e dopo”.
Nel 1934 il ras bolognese è costretto a dimettersi, poi è inviato al confino a Lipari, quindi in soggiorno obbligato a Malacappa. Qui sarà ucciso il 22 aprile del 1945 da partigiani ignari della direttiva contraria del CLN.
Mistero completo, dunque, su quanto realmente accaduto a Bologna il 31 ottobre 1926 nonostante l’affermazione di Mammolo, fatta in uno scritto, mai più ripreso, anzi richiesto indietro ad alcuni conoscenti cui era stato regalato:
“Anteo andò incontro al martirio…con la ferma volontà di liberare l’Italia dalla tirannia…”. E il mistero non è sciolto nemmeno dalle lapidi che, al Sacrario dei Partigiani alla Certosa, lo ricordano come “Vittima giovanetta immacolata” e all’angolo Nettuno-Bassi come “Martire… per audace amore di liberta”. Unica constatazione innegabile è che l’attentato di Bologna servì al nascente Regime per
istituire il Tribunale speciale, ripristinare la pena di morte, sospendere le pubblicazioni dei giornali di opposizione sciogliere i partiti e i sodalizi antifascisti…I duri hanno vinto.
Manca solo il “cosa successe dopo” al tenente che bloccò Anteo Zamboni.
Carlo Alberto Pasolini, andato in guerra, fu fatto prigioniero in Kenia e rimpatriato nel 1945 perché colpito dal lutto per la morte del figlio Guido, partigiano bianco della
Osoppo, ucciso a Malga Porzus dai partigiani rossi italiani uniti agli sloveni.
Deluso negli ideali politici, incapace di ripristinare un rapporto amoroso con la moglie, imbarazzato per l’altro figlio, Pier Paolo, “comunista” e accusato di corruzione omosessuale, affetto da mania paranoidea, cercò la fuga nell’alcool.
Morì di cirrosi epatica nel 1958 e diciassette anni dopo fu seguito nella tomba da suo figlio, Pier Paolo, ucciso in circostanze misteriose e forse politiche, da un ragazzo
di 17 anni.

Testimonianza di Roberto Vighi difensore della famiglia Zamboni
… Ma già da tempo ero in una luce non propizia per la difesa assunta di Mammolo Zamboni e di Virginia Tabarroni, rispettivamente padre e zia del giovinetto Anteo Zamboni, ritenuto attentatore a Mussolini il 31 ottobre 1926, dopo che dal Tribunale Speciale, per una presunta loro corresponsabilità, erano stati condannati a 30 anni di reclusione.
Per dimostrare quanto grottesca e inumana fosse la condanna, decisamente sfidando i rischi di una critica aperta, osai, in un lungo documentato memoriale, di confutare punto per punto, perfino ridicolizzandole, le pretese ragioni dell’accusa e la mia lunga e appassionata fatica non fu vana. Lo stesso Arpinati, infatti, (e gli va dato atto del coraggio dimostrato), presa visione di quel memoriale si indusse a perorare presso Mussolini l’accoglimento dell’istanza di revisione del processo, facendogli presente l’impossibilità di convalidare le balordaggini della sentenza di condanna e ottenendo che, pur suo malgrado, egli si inducesse a disporre la liberazione di Mammolo Zamboni e di Virginia Tabarroni.
Avevo vinto la battaglia! Ed avevo esaudita l’invocazione della madre dolorosa di Anteo, di Viola Tabarroni Zamboni che a me supplichevole si era rivolta ed alla quale non avevo osato opporre un rifiuto, gettandomi così in una impresa che pareva disperata.

Autore: Comandante Lupo

Ho ricercato e raccolto storie di vita, di guerra, di resistenza. Ne ho pubblicate, altre sono ancora da scrivere. Sono sempre alla ricerca di nuove storie se vuoi aiutarmi nella ricerca contattami.

2 pensieri riguardo “Anteo Zamboni”

  1. (pregasi scusare il mio italiano)
    …/ nell’ormai lontano 1986 ebbi occasione di discutere qui in Francia questa vicenda con Dominique Girelli che mi desse quest’informazione, ed era ben informato : era nato a Civitella di Romagna, come Arpinati. Pero non aveva ossessioni anti-Arpinati, e quando faceva allusione al ras era brevemente, sia a proposito del loro dissenso dopo la prima guerra mondiale -“gli ho detto : tu, che la voleva, non l’hai fatta, ed io, che non la volevo, mi hanno costretto a farla!”, sia a proposito del fatto di sapere se si… nasce, o se si diventa, anarchico (erano in tre ad essere compagni : Dominique rimase anarchico per l’intera vita, Arpinati divento fascista, il terzo divento comunista).
    Pero non ho dato un carattere di scoop a questa sua precisione, benche più che interessante.
    La ragione è che figurava già nella corrispondenza di Berneri, dal ’26. E sono quasi sicuro che Berneri (compagno di lotta di Dominique, e come lui combattente in Spagna nella sezione italiana della colonna Ascaso) avra avuto, sessant’anni prima… la stessa fonte di me.

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  2. (dall’estero) non è facile sapere precisemente quale erano le opinioni di Mammolo Zamboni negli anni dell’attentato : aveva fatto la scelta di non emigrare, quindi, gli era difficile rifiutare qualsiasi compromesso con il regime ; poi certo temeva la chiusura della sua Casa Tipografica. Rimane che Arpinati era, come fu allora ricordato da compagni in esilio : frequentatore di casa Zamboni. Altrettanto dire che il ras di Bologna puo essere stato informato in anticipio, della presenza del ragazzo in strada…

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