Marchesi Bruno (Nome di battaglia Delfus)


Nasce il 27 gennaio 1915 a Medicina. Milita nella 5a brigata Bonvicini Matteotti con funzione di comandante del battaglione che opera nella zona di Medicina. Il 10 settembre 1944 organizza insieme a con Vittorio Gombi l’occupazione di Medicina, nel corso della quale sono uccisi alcuni fascisti e recuperate molte armi.

In autunno si rifiuta di attuare la disposizione del CUMER relativa al concentramento delle brigate della provincia in città, in vista di quella che si ritiene l’imminente insurrezione bolognese.

Ha scritto in proposito: «Alla fine di ottobre venne Gombi e disse che io avrei dovuto portare la brigata a Bologna il che era impossibile, oppure voleva dire sottoporre gli uomini al pericolo dell’annientamento non essendovi fra Medicina e Bologna alcuna strada che assicurasse un minimo di protezione. Dissi che non l’avrei fatto senza prima sentire i compagni della giunta d’intesa di Bologna. Allora Gombi andò presso alcune mie basi, facendo un’azione di divisione e minacciando provvedimenti nei miei confronti. Giunse addirittura a processarmi e disarmarmi e voleva che io ordinassi ai miei uomini di consegnargli le armi, ma io non lo feci e invece andai a Bologna dove ebbi piena soddisfazione».

Nell’aprile 1945, dopo la morte del comandante Alfredo Calzolari, assume il comando della brigata. Il 14 aprile 1945, durante la marcia di avvicinamento della brigata verso Bologna, per partecipare all’imminente insurrezione, viene ferito da uno spezzone antiuomo in località Tombazza (Medicina). Non potendo essere curato tempestivamente, subisce l’amputazione del braccio sinistro a causa della cancrena insorgente il 29 aprile pochi giorni dopo la Liberazione.

Gli è stata conferita la medaglia d’argento al valor militare con la seguente motivazione:

«Intrepido e valoroso combattente della libertà fu uno dei primi organizzatori del movimento partigiano in zona. Sempre tra i primi là dove maggiore era il pericolo riusciva a dar vita ad una agguerrita formazione, al comando della quale partecipava con successo ad importanti operazioni belliche. Nel corso di un duro combattimento, colpito ad un braccio da uno spezzone lanciato da un aereo ed incurante della grave ferita, che doveva poi causargli l’amputazione dell’arto, persisteva nella lotta confermando nella circostanza le sue belle doti di comandante capace ed ardito».

Zona di Bologna; Medicina, 8 settembre 1943-25 Aprile 1945.

I suoi ricordi

Durante la guerra di liberazione io fui comandante della 5a Brigata Matteotti, (in seguito intestata al nome di Otello Bonvicini) che operò nelle zone di Molinella, Medicina, Castel Guelfo, un’area cioè di recente bonifica, di aperta pianura. Subito dopo l’8 settembre 1943 cominciammo a formare dei gruppi riunendo insieme dei giovani animati dalla volontà di combattere i nazifascisti e dei vecchi combattenti dell’antifascismo che nella zona erano molti e che non avevano mai disarmato.

Ricordo che i primi gruppi li formai a Ganzanigo, Sant’Antonio, Villa Fontana, Sabbionara, San Martino, Buda, Via Nuova, Crocetta, Fantuzza e questi gruppi all’inizio erano formati da 5 o 6 uomini e avevano le loro « basi » nei cascinali e anche in quelli che noi chiamavamo « rifugi slavi », che erano grandi buche scavate nel terreno e ben camuffate, tanto che non si potevano facilmente scoprire.

Le prime azioni di questi gruppi ebbero come scopo quello di recuperare armi, munizioni, equipaggiamento, ma soprattutto armi perché erano scarse e ricordo che qualche volta dovemmo anche comprarle. L’ambiente politico era favorevole perché nella zona non si erano dimenticate le battaglie combattute per il socialismo ed il grande insegnamento umano di Massarenti e le sue lotte per la liberazione dell’uomo dalla miseria e dall’ignoranza.

Quegli ideali di un socialismo umanitario e democratico erano gli stessi miei ideali, quelli che mi guidarono in tutto il periodo della Resistenza. Ad esempio io, come comandante, ho sempre avuto al centro delle mie preoccupazioni, il problema della salvaguardia della vita dei miei uomini, delle famiglie contadine e dei paesi e ho sempre agito in modo da compiere il massimo delle azioni possibili nelle condizioni che consentissero di evitare rappresaglie ed eccidi e quando penso che ci sono riuscito, ne sono davvero orgoglioso.

Man mano passavano i mesi, i gruppi cominciarono a crescere e così la Brigata cominciò ad essere una forza importante. I collegamenti politici li avevamo da un lato con la Giunta d’intesa PSI-PCI (con Bruno Baroncini, Giuseppe Bertolini, Sebastiano Rossi). La maggioranza degli uomini aderiva infatti al partito socialista e al partito comunista e fra i comunisti medicinesi che ricordo come collaboratori più stretti vi furono Orlando Argentesi, Gaetano Rossi e Giovanni Trippa. Avevamo dei collegamenti anche con Castel San Pietro ed Imola e spesso al termine di azioni militari le nostre squadre riparavano nei rifugi di quei comuni prima di ritornare alle loro basi.

In tutta l’estate la nostra attività fu intensa: facemmo saltare ponti e binari delle ferrovie della zona, interrompemmo le comunicazioni telefoniche e svolgemmo un’azione assai intensa contro le trebbiatrici, scontrandoci più volte coi fascisti, allo scopo di evitare che dopo la trebbiatura i tedeschi portassero via il nostro grano: però non abbiamo mai incendiato, né distrutto le macchine perchè sapevamo quanto necessarie sarebbero state per la ricostruzione e perciò ci limitavamo a danneggiarle asportando dei pezzi vitali come gli iniettori, i carburatori e anche le cinghie.

Il comando della Brigata non aveva mai una sede fissa ed ero io stesso che volevo la massima mobilità: però, malgrado i continui spostamenti, non vi furono mai delle interruzioni dei collegamenti che avvenivano per mezzo di staffette (fra queste ricordo la Gemma Bergonzoni e la Roberta Mazzanti, ma ve ne furono tante altre in maggior parte ragazze) che furono sempre all’altezza del loro compito e che, fra l’altro ci fornivano anche preziosissime notizie sul dislocamento e sui movimenti dei reparti nemici.

Una delle azioni più vistose ed importanti fu quella che portò all’occupazione di Medicina e che fu svolta il 10 settembre 1944. Nelle prime ore del mattino, in un’azione coordinata coi SAP e con i GAP locali, sotto la direzione del comando unico, Medicina venne occupata e le forze partigiane si predisposero a protezione di una manifestazione popolare organizzata dal CLN. Prima dell’occupazione squadre di SAP avevano tagliato le comunicazioni telefoniche e subito noi predisponemmo posti di blocco su tutte le strade per respingere un eventuale intervento di forze nemiche dall’esterno. Poi organizzammo l’attacco alla caserma della GNR con due camioncini carichi di partigiani ben decisi, armati di mitra e anche di mitragliatrici.

Tutto procedeva bene quando, causa una « voce » falsa accadde purtroppo un incidente doloroso: il vice comandante Mario Melega avuta la notizia errata che noi avevamo già occupato la caserma della GNR, entrò in paese alle 7,20 su di un camioncino, insieme ad un compagno e quando fu all’altezza del Caffè centrale, visto il tenente della milizia, che era un delinquente, gli sparò, freddandolo, ma intanto dalla Caserma i fascisti spararono uccidendo il nostro compagno.

Malgrado ciò nessuno si lasciò intimorire e verso le 9,20, prima a piccoli gruppi, poi sempre più numerosi, i cittadini cominciarono ad affollare la piazza e poi comparvero fra la folla dei cartelli inneggianti agli eserciti alleati e di esaltazione della Resistenza. Parlò un rappresentante del CLN che incitò il popolo a continuare la lotta fino al raggiungimento della vittoria e della libertà. Poi partigiani e popolo entrarono nel Municipio, distrussero gli incartamenti dell’Ufficio leva e quelli dell’annonaria e anche una bandiera fascista e un busto del Duce che fu fatto a pezzi.

Alle 11 cominciammo l’attacco alla Caserma e subito intimammo la resa ai fascisti. Dapprima restarono un po’ incerti e poi si arresero e l’azione ci fruttò anche un buon bottino di armi: 80 moschetti, una mitraglia leggera, un fucile mitragliatore e parecchie munizioni.

Nel pomeriggio le brigate nere arrestarono una ventina di donne e una decina di uomini; alle donne furono tagliati i capelli e poi furono schiaffeggiate in piazza, poi condotte in carcere a Bologna. Quattro giorni dopo però le donne furono rilasciate.

Il 14 settembre, 16 partigiani bene armati parteciparono ad un’azione di protezione di una dimostrazione popolare a Sesto Imolese, bloccando la via San Vitale fra Medicina e Sesto. Nel pomeriggio, alle 15, i nostri si scontrarono con reparti tedeschi e il combattimento durò circa mezz’ora e alla fine i tedeschi dovettero ripiegare lasciando sul terreno due morti e portandosi via qualche ferito. Noi ce la cavammo con un ferito leggero.

Dopo queste azioni le nostre forze aumentarono e la Brigata, raggruppando ormai circa 300 uomini, fu divisa in 4 battaglioni e fra questi ricordo quello di Molinella, comandato da Alfredo Calzolari, con commissario politico Anselmo Martoni. La crescita della Brigata pose nuovi problemi specie sul metodo di lotta, sul modo di esporre gli uomini, sulla necessità, sempre da me sostenuta, di operare in modo da ottenere i risultati massimi esponendo i partigiani e le popolazioni al minor rischio possibile per la loro vita. Vi furono dei dissidi, che io non voglio tacere, fra noi socialisti ed alcuni dirigenti comunisti.

In ottobre arrivò da Bologna un giovane con un piccolo biglietto nel quale c’era scritto che noi dovevamo passare agli ordini del comando di Bologna. Poiché di ciò non avevo saputo niente né da Sante Vincenzi, né da Gianguido Borghese, cui facevo normalmente riferimento per i collegamenti con la Giunta d’intesa, trattenni il giovane in attesa di accertamenti. Alla fine di ottobre venne Gombi e disse che io avrei dovuto portare la Brigata a Bologna il chè era impossibile, oppure voleva dire sottoporre gli uomini al pericolo dell’annientamento non essendovi fra Medicina e Bologna alcuna strada che assicurasse un minimo di protezione. Dissi che non l’avrei fatto senza prima sentire i compagni della Giunta d’intesa di Bologna. Allora Gombi andò presso alcune delle mie « basi », facendo un’azione di divisione e minacciando provvedimenti nei miei confronti. Giunse addirittura a processarmi e disarmarmi e voleva che io ordinassi ai miei uomini di consegnargli le armi, ma io non lo feci e invece andai a Bologna dove ebbi piena soddisfazione.

Nonostante ciò io non mi abbattei e ritornai nelle « basi » per organizzare, nelle nuove condizioni, rese più difficili dal proclama di Alexander, forme di lotta che dovevano tener conto della situazione gravissima in cui ci trovavamo, completamente scoperti come eravamo e per di più in una zona dove ormai tutti ci conoscevano. Inoltre i collegamenti col CUMER erano diventati più difficili ed è noto anche che il CUMER aveva dal canto suo consigliato la più grande prudenza durante l’inverno per non cadere nei rastrellamenti tedeschi e per non distruggere le forze che sarebbero state necessarie in primavera alla ripresa dell’offensiva.

Comunque, anche in quelle condizioni difficili, la nostra attività non cessò, solo che fu adottata un’altra tattica e cioè quella dell’attacco con piccoli gruppi mobilissimi, specie per azioni di sabotaggio e di disturbo. Andò bene e già in febbraio potemmo fare azioni più massicce, riprendendo anche i collegamenti fra i vari reparti.

In marzo attaccammo anche i sabotatori tedeschi che stavano minando i bacini di Vallesanta nell’intento di distruggere quanto con tanta fatica si era fatto in mezzo secolo di opere di prosciugamento della palude.

Il 14 aprile, mentre stavo organizzando lo spostamento della Brigata verso Bologna, fui ferito da uno spezzone antiuomo nei pressi della Tombazza. Restai a terra tramortito, colpito gravemente al braccio sinistro e anche alla fronte, ad una gamba e nella schiena. Non descrivo le giornate che seguirono e mi limito solo a ricordare l’aiuto della famiglia Alberoni, di mio zio, che era un pompiere e che mi portò a Medicina in un ospedale-convento quando la città era ancora fra due fuochi, e poi fui portato nell’ospedale di Imola e poi, finalmente, il 22 aprile, cioè il giorno dopo la liberazione, fui sistemato in un letto del reparto del Rizzoli che era a Sant’Orsola. Mi operarono il 24 e il 29 aprile mi amputarono il braccio, ormai entrato in cancrena.

 

Autore: Comandante Lupo

Ho ricercato e raccolto storie di vita, di guerra, di resistenza. Ne ho pubblicate, altre sono ancora da scrivere. Sono sempre alla ricerca di nuove storie se vuoi aiutarmi nella ricerca contattami.

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