7 novembre 1944 Bologna La battaglia di Porta Lame


Alle ore 5,30 del 7.11. 1944 reparti delle Brigate nere, della Feldendarmeria tedesca e di agenti del Reparto d’assalto della polizia nel corso di un rastrellamento scoprirono la base del Macello comunale.
I partigiani, che si trovavano in 2 stabili, cominciarono a sparare con le armi leggere di cui erano armati. Le partigiane Rina Pezzoli e Diana Sabbi, fatte uscire dalla base per raccogliere informazioni sullo schieramento attaccante, furono catturate e non poterono rientrare. I fascisti tentarono più volte di occupare gli stabili con assalti tanto furiosi, quanto infruttuosi.

Il primo partigiano a cadere fu Nello Casali “Romagnino”, mentre i feriti erano curati dal medico Luigi Lincei “Sganapino”.
Verso le 10 i tedeschi misero in postazione in via Carlo Alberto (oggi via don Minzoni) un cannone da 88 e una mitragliera pesante a due canne. L’88 demolì uno dei due stabili, per cui i partigiani dovettero rifugiarsi – meno 4 che caddero nella sortita – nell’altro che era seminterrato e quindi meno esposto alle cannonate.
Alle 15,30 dal fronte giunse un carro armato Tigre, il cui cannone cominciò a demolire il secondo stabile. A questo punto Michelini – che aveva assunto il comando, essendo rimasto gravemente ferito Gualandi – decise di abbandonare la base. Furono fatti tre gruppi: il primo e il terzo di partigiani armati, il secondo di partigiani che trasportavano i feriti.

Dopo avere gettato fumogeni, scesero nel canale Cavaticcio – oggi interamente coperto – e risalirono la corrente verso via Roma (oggi via Marconi). Sulle due rive, molto alte, si trovavano i fascisti i quali, grazie ai fumogeni e all’oscurità, non li videro.
Una volta giunti in piazza Umberto I (oggi piazza dei Martiri), – dopo avere percorso via Marghera (oggi via Fratelli Rosselli) – i partigiani eliminarono un posto di blocco fascista e quindi si divisero in 4 gruppi.

I feriti furono portati in alcune abitazioni private e quindi nell’infermeria partigiana di via Duca d’Aosta 77 (oggi via Andrea Costa). Gli altri tornarono alle vecchie basi di partenza, alla periferia della città e nei comuni della provincia.
Quasi alla stessa ora, i partigiani della base dell’ex Ospedale Maggiore uscirono allo scoperto e attaccarono da retro lo schieramento nazi-fascista per consentire ai compagni, che ritenevano ancora accerchiati nell’ex macello, di mettersi in salvo.

I nazi-fascisti si sbandarono e quando i partigiani penetrarono nei locali semidemoliti li trovarono vuoti. Senza attendere il ritorno in forze dei nemici, i partigiani abbandonarono la zona e rientrarono nelle vecchie basi.

Testimonianze

ARRIGO PIOPPI Comandante del distaccamento di Castel Maggiore della 7.a brigata GAP.

Fissammo la nostra base nella sede diroccata dell’Ospedale Maggiore, fra via Riva Reno e porta Lame, e il 7 novembre il nostro distaccamento prese parte alla battaglia e al contrattacco della sera. Il nostro compito era quello di puntare verso porta Lame per aiutare quelli del Macello che ancora non si fossero sganciati. Il combattimento, assai duro, per l’arrivo di autocarri carichi di militi ausiliari provenienti da porta Saffi, durò circa due ore e terminò con la nostra conquista della zona attorno a porta Lame. Nella battaglia fummo fortunati e avemmo solo un ferito e cioè Giorgio Zanichelli.

GERMANA BORDONI Partigiana nel distaccamento di Castel Maggiore della 7.a brigata GAP

Le sera del 7 novembre, quando la base gappista del Macello combatteva ormai da circa dodici ore, in condizioni sempre più difficili, il vice comandante Giovanni Martini, diede l’ordine che il nostro gruppo e tutte le forze che erano nell’Ospedale attaccassero i nazifascisti alle spalle per liberare i nostri compagni della base del Macello. Anch’io partecipai all’attacco ed ero in quel momento l’unica donna uscita armata a fianco dei compagni del distaccamento.
Fui la prima ad arrivare a porta Lame e mi appostai nei pressi del cassero, nel punto dove la battaglia era più dura. Mi accorsi di essere alla testa del gruppo gappista che partecipava all’azione. Combattemmo fino verso le 20,30. Credo di essermi comportata da buona combattente e ne è prova il fatto che poi decisero di decorarmi con la medaglia d’argento al valore militare.

LUIGI BROCCOLI Partigiano nel distaccamento di Castenaso della 7.a brigata GAP

Una sera ci venne a prendere un camion blindato e raggiungemmo la base dell’Ospedale Maggiore a Bologna. La sera del combattimento (7 novembre 1944) ero in permesso concesso dal comando della brigata perché dovevo prelevare indumenti dalle famiglie dei nostri partigiani.
Partii la sera del 6 sotto un acquazzone infernale, con una bicicletta senza parafanghi. Raggiunsi l’abitazione della Emma Pasquali vedova Fornaciari, in via Frullo 22, e vi sostai per tutta la notte. Ero tutto bagnato fradicio.

La mattina del 7 novembre 1944 partii con la Lea Fornaciari, su due bici, carichi d’indumenti puliti, per raggiungere la base. Arrivati nella piazza XX Settembre, vicino alla stazione centrale, un uomo dai tetti, dove ora è l’albergo «Bologna» che sembrava facesse il muratore, ad alta voce ci chiamò e ci disse di ritornare indietro perché la base partigiana di Porta Lame era già assediata dai fascisti e dai tedeschi. Ritornammo sui nostri passi e per tutta la giornata attendemmo notizie.

Mandai la Lea Fornaciari, che era una staffetta giovanissima del nostro distaccamento, in giro per raccogliere notizie. Poi organizzai le «basi» subito dopo lo sganciamento dopo la battaglia di porta Lame. Fu in questa opera per ritrovare le «basi» per i partigiani che mi imbattei in una famiglia la quale mi denunciò e così la brigata nera venne nella mia casa. Non trovandomi, arrestarono mio padre il quale si difese dicendo che di me non sapeva più nulla dall’8 settembre 1943 e che sarebbe stato molto grato a chi gli avesse portato notizie di suo figlio. Sequestrarono una foto che io avevo fatto scattare sui monti della Croazia. Forse quella foto aiutò mio padre a riavere la libertà.

LOREDANO ZUCCHELLI Comandante del distaccamento di Anzola Emilia della 7.a brigata GAP

La mattina del 7 novembre 1944, quando iniziò la battaglia di porta Lame, il distaccamento si sistemò nell’interno della Camera mortuaria dell’ospedale e da quel posto attendevamo l’ordine di uscire per aggredire alle spalle i tedeschi e i fascisti che già avevano iniziato l’attacco alla base del Macello.

Io, montato di guardia alle due di notte e che dovevo smontare alle quattro, restai al mio posto fin verso le 7 del mattino e mi resi conto che stava per iniziare la battaglia. Sentii fischiare le pallottole tedesche, ma non riuscii subito a capire se l’attacco era diretto a noi oppure all’altra base, come in effetti era.

L’ordine di attacco per noi venne solo verso le 6 di sera, quando già cominciava a far buio. Uscii col primo gruppo composto di 15 uomini, tutti armati di armi automatiche leggere. Alla nostra testa era il comandante Sugano. Sbucammo sul viale che unisce porta Saffi a porta Lame al grido di «Garibaldi combatte» e avanzammo fino a quest’ultima sparando in continuazione.

A porta Lame ci scontrammo coi tedeschi e ricordo che lanciai contro il portone di legno della porta una bomba «Sipe» che colpì un ufficiale tedesco che si trovava sopra una auto anfibia. A porta Lame il nostro gruppo si congiunse col distaccamento di Castel Maggiore, al comando di Bill. Per un’ora circa combattemmo attorno alla porta e qui i nazifascisti ebbero le maggiori perdite. Il combattimento alla fine fu un vero corpo a corpo sotto l’arco del cassero. Alcuni fascisti si erano nascosti fra il bitume e noi ce ne accorgemmo in ritardo, ma sempre in tempo per vincere quest’ultimo scontro.

Al termine della battaglia, noi del distaccamento di Anzola ci riunimmo a porta Lame e constatammo le nostre perdite: Oddone Baiesi, Ettore Magli e Oliano Bosi, tutti di Anzola, morti proprio all’inizio dello scontro.

LINO MICHELINI Commissario politico del distaccamento di città della 7.a Brigata GAP

La mattina del 7 novembre 1944, alle ore 6, quando cominciò la battaglia a porta Lame io mi trovavo1 nella cosiddetta Palazzina che era una casa abbandonata a due piani situata all’ingresso della nostra base dalla parte di Azzo Gardino.

All’inizio eravamo distribuiti in tutti i piani e a tutte le finestre: potevamo da quelle posizioni, essendovi finestre da tutte le parti, sparare contemporaneamente sui tedeschi che erano nelle scuole Fioravanti, nell’edificio dell’Ente Autonomo Comunale, nella sede del Dopolavoro della Manifattura Tabacchi e anche verso via Azzo Gardino dove il nemico aveva posto un fucile mitragliatore nel campanile della chiesa.

Resistemmo a lungo in tutti i piani e respingemmo anche, con la partecipazione di tutta la compagnia, numerosi assalti che i nazifascisti tentarono di attuare col lancio di bombe fumogene, partendo generalmente dalla zona di Azzo Gardino.

I nemici, dalla strada in parte coperta da un muro, avanzavano verso di noi attraversando un prato e in tal modo si esponevano non solo al nostro fuoco della Palazzina, ma anche a quello della base del gruppo di Medicina e di un gruppo comandato da Cognac che era appostato nella casa a fronte di via del Porto.

Ma i nazifascisti ben presto si resero conto che occorreva innanzi tutto eliminare la resistenza della nostra Palazzina. Vennero all’assalto in continuità circa dalle 9 in poi. Noi resistemmo al massimo nei piani alti; poi, quando non potemmo più resistere poiché usavano contro di noi anche un cannone da 88, scendemmo al piano di sotto e qui di nuovo si resistette al massimo.

Al mio fianco cadde per primo Nello Casali (Romagnino) un giovane di Cesena, poi cominciarono i feriti e poi fummo costretti a scendere al piano terreno quando ormai eravamo quasi accerchiati.
Dal piano terreno la nostra resistenza era molto più difficile e poco dopo mezzogiorno io mi resi conto che quella posizione non poteva più essere tenuta. Ma anche per i fascisti la lotta era dura ed era costata loro molte perdite. Nel prato i morti fascisti e tedeschi non erano pochi. Ricordo che un ufficiale fascista, visto che i militi cominciavano ad indugiare dopo molti assalti falliti, gridò: «Avanti, ragazzi, il Duce ci guida!» Ma Piva li attendeva allo scoperto e li falciava col fucile mitragliatore piazzato davanti alla casa base prospiciente il canale.

Abbandonare la Palazzina però non fu facile. Io uscii per primo per raggiungere Aldo che ci chiamava dalla casa bassa e quando lo raggiunsi una bomba a mano gli scoppiò quasi addosso coprendolo di schegge. Allora Giulio, che era con Aldo, corse nella Palazzina per richiamare tutti fuori poiché ormai erano quasi completamente accerchiati. I fascisti allora cominciarono a urlare che i nostri uscissero con le mani in alto. Ma per primo uscì Carlone, col mitra in mano, e falciò tutti i fascisti che gli erano attorno e così aprì una breccia dalla quale, sparando da ogni parte, i nostri, anche i feriti, poterono uscire. Ma nella mischia tre dei nostri (Scalabrino, Bridge e Giulio) morirono e altri, fra cui lo stesso Carlone, furono feriti.

I fascisti continuarono ad attaccare, ma l’intensità del loro fuoco diminuì e noi ce ne accorgemmo. La cosa era importante perché, al calare della sera, sapevamo che avremmo potuto uscire. Sembra che i nazifascisti si fossero trovati a corto di munizioni ed avessero subito perdite assai gravi per cui avevano deciso di richiamare dal fronte un carro armato «Tigre» per limitarsi all’attacco a distanza. Il «Tigre» arrivò e cominciò a sparare, ma ormai si avvicinava la sera. L’ultimo morto fu un aviatore neozelandese (John Klemlen), molto bravo e coraggioso, che fu proprio colpito dal «Tigre», mentre, in posizione di retroguardia, tentava di salvare i feriti.

Noi ci sganciammo, protetti dalla nebbia che avevamo creato artificialmente con un nutrito lancio di bombe fumogene, risalendo il corso del canale covaticcio in direzione di piazza Umberto I (ora piazza dei Martiri), dove ingaggiammo l’ultimo scontro a fuoco della giornata contro i brigatisti neri che la presidiavano. Avemmo ancora dei feriti, uno dei quali grave, ma la sorpresa dell’attacco portò alla distruzione dell’ostacolo e i fascisti che furono risparmiati si salvarono con la fuga.

Potemmo così gradualmete ritornare nelle vecchie basi della brigata sparse nellacittà. Frattanto, a cominciare dalle sei e mezza della sera, i gappisti della base dell’Ospedale Maggiore avevano iniziato l’attacco ai fascisti e ai tedeschi i quali, colti di sorpresa da più parti nella zona attorno a porta Lame, si sbandarono e si diedero alla fuga.

LOREDANA SASDELLI Partigiana nel distaccamento di Medicina della 7.a Brigata GAP

Il 7 novembre partecipai alla battaglia di porta Lame combattendo a fianco dei miei compagni e anche portando munizioni e prestando soccorso ai feriti.
Durante quella memorabile giornata, in cui tutti ci prodigammo fino allo spasimo, il morale dei gappisti e mio non vacillò mai, anzi dirò che eravamo entusiasti di poter finalmente combattere a viso aperto, e, nonostante la situazione si facesse sempre più critica, nessuno pensò mai alla possibilità di arrendersi: tutti avevamo la certezza, pur tra tanta difficoltà, di uscire vittoriosi dallo scontro.

La sera del 7 novembre, mentre il nemico sparava con tutte le armi che aveva a disposizione, compresa l’artiglieria, al calar delle tenebre effettuammo lo sganciamento, attraverso le acque del canale prospiciente la base. Giunti in piazza Umberto, fummo attaccati da pattuglie fasciste e qui rimanemmo feriti Drago ed io, in modo non grave, e poiché, la formazione fu costretta a sciogliersi, io seguii Drago con il grosso delle forze e ci rifugiammo fra le macerie dell’ex ospedale «Mussolini».

Rimanemmo in quel punto nascosti fino alla sera del giorno successivo e durante la notte ci trasferimmo in una base situata in via Scipione del Ferro, dalla quale, dopo alcuni giorni, rientrammo a Medicina, per ordine del comando di brigata, con il quale eravamo riusciti a collegarci.

BRUNA PEZZOLI Partigiana nella 7.a Brigata GAP

La mattina del 7 novembre 1944 mi ero alzata presto, come al solito, e avevo acceso i fornelli e stavo preparando il caffellatte ai partigiani, quando irruppe nella cucina della «Palazzina» un partigiano che, agitandosi, disse: «Siamo accerchiati! Spegnete il fuoco. Il fumo può attirare su di noi l’attenzione del nemico». Il comandante ordinò alle partigiane Rina e Diana di uscire in perlustrazione e riportare quante più notizie potevano raccogliere sul nemico. Vi erano dei partigiani che volevano attaccare subito. Il comandante ordinò di stare fermi.

I tedeschi ultimavano l’accerchiamento. I nostri osservatori seguivano i loro spostamenti. Quando ci attaccarono li lasciarono avvicinare il più possibile poi li annientarono. Gli assalti del nemico si susseguivano nella giornata, ma venivano sempre respinti con grosse perdite. In mezzo ai partigiani vi era dell’entusiasmo, io riempivo caricatori su caricatori e li consegnavo ai combattenti. Le ore passavano veloci, non pensavo a niente, quasi provavo piacere a quella lotta.
Verso mezzogiorno il fuoco dell’artiglieria e delle armi pesanti dei nazi-fascisti si concentrò contro la Palazzina che sotto i colpi si sgretolava e i muri ci cadevano addosso. Ci rendemmo conto che in quella situazione non era possibile fuggire.

Io non avevo mai adoperato armi, pregai i compagni, se fossero stati costretti a soccombere, di riservare un colpo per me e di non abbandonarmi viva nelle mani del nemico. Fra un bombardamento e l’altro gli assalti dei nemici si susseguivano sempre più violenti, sembrava impossibile anche a noi metterne in fuga tanti.

Nelle ore del pomeriggio, dopo un ennesimo assalto respinto, ma con più fatica degli altri, mentre il nemico concentrava maggiormente il fuoco delle armi pesanti su di noi, ci ordinarono di abbandonare i resti della «Palazzina» e di ritirarci nella lavanderia. Raccogliemmo le poche munizioni che ci restavano e attraverso il cortile, di corsa imboccammo la scala esterna del fabbricato che conduce nello scantinato.

Lo zio Scalabrino all’imbocco della scala cadde colpito a morte.
Saltai il suo cadavere e mi buttai al riparo giù nella cantina, inseguita dagli spari. Entrai dentro un ampio vano pieno di feriti, sparsi sopra dei materassi insanguinati. Alla vista di questi, cominciai a piangere, abbracciai Aldo, Cognac ed altri, mentre, piangevo, cercavo di curarli, di rendermi utile. Anche la lavanderia stava crollando: una voce disse che il lato ovest del resto del lungo fabbricato stava bruciando e il pietrisco cominciò presto a caderci addosso sotto l’azione demolitrice del carro armato, che sparava, col cannone, da distanza ravvicinata. Il comando decise che non era più possibile resistere ancora fra quei ruderi ed ordinò di sfondare la porta che dava sul Cavaticcio di fronte al porto del canale.

I nazi-fascisti avevano fatto un lancio di bombe fumogene per coprire l’assalto di guastatori contro la lavanderia. I partigiani ne approfittarono ed infittirono il lancio di bombe fumogene riempiendo il canale di fumo, fino a via Roma. Un gruppo di partigiani apriva la marcia della colonna immergendosi nell’acqua melmosa e fetida del canale, risalendo la corrente. Io aiutavo i feriti a mantenersi in colonna per proseguire la marcia fra gli sterpi della riva destra.

La brigata nera in postazione sulle rive del canale ci gridò: «Chi va là!» Un partigiano rispose «brigata nera». Ci chiesero: «Chi vi comanda?» Fu risposto il nome di un gerarca. La brigata nera tacque.
Noi continuammo la marcia e, attraverso le macerie, raggiungemmo piazza Umberto I. Un forte schieramento di nazisti era schierato contro la base. Noi avevamo superato lo schieramento, ma non era possibile passare oltre senza essere veduti.

I partigiani decisero di attaccarli alle spalle di sorpresa. Altri feriti si aggiunsero ai feriti. Si raggiunse il canale della mura prima di via Pietramellara. Ci rifugiammo dentro. Si discusse se salire verso la Montagnola o seguirne il corso verso la bassa. Io sostenevo di seguire il corso, anche perché abitavo a Corticella, dove mi sarebbe stato più facile trovare delle basi e ritornare a casa mia. Vi era Libero, Franz, altri del gruppo di Medicina e molti feriti.

Ci gettammo di nuovo dentro a questo canale: la melma ci giungeva alle ginocchia e l’acqua ci copriva a metà. Molti perdettero le scarpe che restarono incollate al fondo del canale. Faticando ed ansimando mi trascinai Rudi, assorbendomi i gas che si sprigionavano dalla colonna in marcia nel mescolare la melma; dovemmo ritornare indietro a cercare il gruppo di Medicina che si era allontanato. Quando finalmente giungemmo oltre via Carracci, e percorso più di un chilometro nella fognatura che attraversa la stazione centrale, potemmo guadagnare la riva sinistra del canale, guidati da Elio Vigarani, consegnammo i feriti alla base del Cagnaro dove la signora Elide Ruvinetti mise a disposizione la sua casa che venne trasformata in infermeria.

Coll’aiuto della mamma di Elio, la signora Pasquina, che ci mise a disposizione la casa, ci potemmo pulire, ristorare e finalmente riposarci. Verso le ore dieci dell’8 novembre, attraversando i campi, giunsi a casa, abbracciai i familiari che avevano vegliato tutta la notte nell’attesa di avere notizie.

Autore: Comandante Lupo

Ho ricercato e raccolto storie di vita, di guerra, di resistenza. Ne ho pubblicate, altre sono ancora da scrivere. Sono sempre alla ricerca di nuove storie se vuoi aiutarmi nella ricerca contattami.

5 pensieri riguardo “7 novembre 1944 Bologna La battaglia di Porta Lame”

  1. MOLTO INTERESSANTE, VI SEGNALO LA COMMEMORAZIONE DELL’INFERMERIA PARTIGIANA SABATO 15 ALLE ORE 10.30 NELLA SALA CENERINI DEL QUARTIERE SARAGOZZA. LEGGEREMO ALCUNE TESTIMONIANZE.
    IL VOSTRO BLOG è STATO UTILE PER AVERE ULTERIORI NOTIZIE. NADIA GHERARDI (ASSOCIAZIONE GRANDE PRATELLO – TEATRO SUBITO)

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    1. Grazie e sono contento di essere stato utile alle vostre ricerche. Molto interessante la vostra iniziativa per la commemorazione dell’infermeria partigiana posterò la vostra iniziativa anche nel mio profilo facebook per dare più pubblicità.

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  2. grazie a tutti voi che raccontate queste storie dell’altro ieri a noi che non le abbiamo vissute
    continuate, non sono solo io a chiedervelo, ma tutti quelli che desiderano sapere chi fossero i loro padri e i loro nonni

    luca, bologna

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