Torquato Bignami


Nasce l’8 giugno 1910 a Bologna. Nel 1926 entra a far parte della gioventù comunista nella cellula delle scuole Bombicci di Bologna. Qui, già nel 1922, aveva innalzato una bandiera rossa in occasione di uno sciopero di muratori.

Nel 1931 emigra in Francia e a Parigi ed entra in contatto con il centro estero del PCI che lo incarica più volte di compiere viaggi clandestini in Italia. Rimpatriato alla fine del 1931, entra a far parte del Comitato federale di Bologna.

Il 15 settembre 1932 viene arrestato e deferito al Tribunale speciale. Con l’ordinanza n. 253 del 10 dicembre 1932 viene richiesta un supplemento di istruttoria. Con sentenza n. 10 del 20 gennaio 1933, è prosciolto per non luogo a procedere dalle accuse di associazione e propaganda sovversiva. Grazie all’amnistia indetta in occasione del decennale fascista viene liberato il 23 gennaio 1933.

Per la sua attività viene arrestato più volte negli anni seguenti, nel 1936 è condannato a 2 anni di ammonizione. Per la sua partecipazione alle manifestazioni di piazza successive alla caduta di Mussolini è arrestato e condannato dal tribunale militare di Bologna a 14 mesi di reclusione.

Inviato nelle carceri di Firenze, è scarcerato l’8 settembre 1943.

Allontanatosi da Bologna perché ricercato, partecipa all’organizzazione dei primi gruppi partigiani nel modenese. Nel marzo 1944 entra a far parte della 7.a brigata Modena della divisione Armando divenendone il commissario politico e nel giugno prende parte ai combattimenti che portano alla creazione della repubblica di Montefiorino (MO).

La storia della Repubblica di Montefiorino nelle sue memorie

La mia adesione all’antifascismo data dal 1926 quando entrai a far parte della gioventù comunista in una « cellula » della scuola « Bombicci » in via Turati (ex via degli Orbi) dove a quell’epoca si cominciò la costruzione delle palazzine dei ferrovieri e dove vi era un grande fermento di lotte operaie. La scuola « Bombicci » fu pure l’istituto nel quale frequentai le elementari.

Ricordo che già nel 1922, in seguito a degli scioperi che i muratori effettuarono, innalzai una bandiera rossa in cima ad un albero in fondo a via degli Orbi, vicino al deposito di un carbonaio. Immediatamente arrivarono i fascisti incominciando a sparare, cercando di intimorire le persone presenti per sapere chi era stato. Nessuno parlò pur sapendo benissimo la mia identità, anzi molte donne, e specialmente la madre di Ernesto Venzi, si scagliò contro i fascisti insultandoli, dimostrando in quel modo di non temere le possibili reazioni e conseguenze che un fatto del genere portava.

Nel 1926 i muratori organizzarono uno sciopero e noi comunisti lo appoggiammo.

I fascisti reagirono operando rappresaglie, entrarono nei caffè, nelle osterie, in tutti i luoghi di riunione, prelevarono i giovani presenti e li portarono nelle diverse sedi del fascio cercando, anche con minacce, di iscriverli al partito fascista. Fra questi, solo io e Remo Passerini, un mio carissimo amico, rifiutammo in modo categorico qualsiasi compromesso. Ciò avvenne nella sede del fascio di via Pratello. Altri, in seguito, riuscirono ad evitare l’iscrizione.

Nel 1931 emigrai in Francia e, a Parigi, mi misi in contatto con il « centro estero » del partito comunista. Fui mandato in Italia diverse volte come « corriere ». Rientrai in Italia alla fine dell’anno 1931.

All’inizio del 1932 fui messo in contatto con un dirigente della gioventù comunista di Bologna da un funzionario venuto dalla Francia.

In seguito feci parte del comitato federale, divenendone segretario. Il 15 settembre fui arrestato e deferito al Tribunale speciale e alla fine dell’anno o ai primi di gennaio 1933, fui condannato a dieci anni di carcere, così suddivisi: 4 anni per la « direzione » del partito, 3 per la sua « ricostruzione », 3 per la « propaganda e l’appartenenza » allo stesso. Il mio processo fu uno dei primi in cui i comunisti vennero condannati per articoli, mentre prima l’accusa era generica. Fui liberato per questa ragione il 23 gennaio 1933 in seguito all’amnistia del « decennale » fascista. Più volte, in seguito, fui arrestato e nel 1936 fui condannato a due anni di ammonizione. Non interruppi comunque la mia attività.

Il 26 luglio, alla caduta del fascismo, chiusi la mia officina meccanica di Casalecchio di Reno e partecipai alle manifestazioni di piazza dirette, tra gli altri, dal compagno Mario Peloni. Il 28 o 29 luglio fui arrestato e condannato dal Tribunale militare di Bologna a 14 mesi di reclusione e altri 14 di arresto. Mi inviarono nelle carceri di Firenze. L’8 settembre fui liberato assieme a tutti i condannati dal governo Badoglio.

Mi incontrai a Casalecchio di Reno con Peloni ed egli mi consigliò di non ritornare a Bologna per evitare di essere arrestato di nuovo. Andai a Calcara poi a Spilamberto sul Panaro. Aderii immediatamente alla preparazione della lotta armata, collaborando alla costituzione delle squadre GAP, raccogliendo armi, munizioni ed indumenti per le formazioni di resistenza che si stavano costituendo. Dalla metà di novembre fino ai primi di marzo 1944 fui comandante del 5° settore, poi Umberto Ghini, che era responsabile militare del CLN di Modena, mi inviò in montagna con la Divisione « Modena ».

Raggiunsi la formazione sopra Cerredolo con un gruppo di partigiani modenesi guidati da Mario (il modenese Iris Malagoli) che poi divenne comandante della seconda Divisione. Ci congiungemmo con Armando (Mario Ricci) e Davide (Osvaldo Poppi). Le forze partigiane modenesi a quest’epoca contavano circa 500 effettivi.

Dopo una serie di combattimenti, quasi tutti con esito per noi favorevole, il morale dei repubblichini era molto scosso. Questi combattimenti venivano fatti in una vasta zona con attacchi improvvisi per mezzo di piccole formazioni per dare l’impressione ai nazifascisti che il numero dei partigiani fosse molto più numeroso. La liberazione di Roma e l’apertura del secondo fronte in Normandia, il 6 giugno 1944, determinarono una situazione ancora più favorevole per noi.

A Pievepelago la guarnigione composta di militi e di carabinieri che costituiva quel presidio si accordò con i partigiani per farsi disarmare. Il 10 giugno il presidio di Sestola disertò. Un reparto di militi della milizia ausiliaria di Modena prese contatto col CLN di Modena e venne in montagna con le armi. Tutti questi eventi che facevano crollare il morale dei repubblichini, al contrario galvanizzavano i partigiani. Ci sentivamo più forti e molto più sicuri dai rastrellamenti. Ovunque i partigiani passavano all’attacco: a Serramazzoni, a Sestola, a Zocca e a Ospitale. Serramazzoni stessa fu occupata dagli uomini di Marcello (Marcello Catellani) per alcuni giorni e Ospitale da quelli di Armando. Anche Sestola fu occupata da noi per una quindicina di giorni.

Data questa situazione da tutte le formazioni partigiane era sentita la necessità di avere una zona libera dove potere avere lanci di armi ed inquadrare le forze contrarie al fascismo, le quali salivano in montagna sempre più numerose. Al comando venne discussa l’azione da farsi e si passò alla sua attuazione. Ciò portò alla creazione della « Repubblica di Montefiorino ».

Nella notte dall’8 al 9 giugno numerose pattuglie partigiane, partirono per danneggiare i ponti sulle strade dell’Appennino. Furono distrutti o danneggiati i seguenti ponti: del Samone sulla Zocca-Pavullo, di Verica sulla Montese-Pavullo, del Vesale sulla Sestola-Pavullo, del Dardagna sulla Fanano-Porretta, di Sant’Andrea e di Dogana sulla statale 12, di Brandola sulla Pavullo-Polinago, di Cadignano e del Grillo sulla strada di Lama Mocogno, del Monte Molino del Dolo e del Secchia sulla Sassuolo- Montefiorino.

Inoltre, altri ponti sulla strada del Cerreto. Il raggio d’azione dei partigiani fu molto vasto e naturalmente non tutte le azioni riuscirono alla perfezione tanto che alcuni ponti furono riattivati dai nazi-fascisti. Contemporaneamente iniziammo la lotta contro i presidi della Guardia nazionale repubblicana.

Ai primi di giugno caddero i presidi di Toano e Ligonchio. Di fronte al precipitare della situazione diversi presidi furono abbandonati dalle GNR, fra i quali quello di Toano e Villa Minozzo, nel Reggiano. Un tentativo di difesa fu tentato dalla GNR fra Castelnuovo ed il passo del Cerreto, ma l’arrivo di una colonna di partigiani modenesi al comando di Armando e di Davide li dissuase dal resistere, obbligandoli a ritirarsi in pianura.

Nel frattempo, i presidi di Montefiorino, di Frassinoro e Piandelagotti venivano attaccati dalle formazioni partigiane. Le località erano state accerchiate dagli uomini di Giuseppe Barbolini di Sassuolo, di Balin e da gruppi locali. I partigiani saltuariamente sparavano a scopo intimidatorio. L’assedio di Montefiorino era fatto in prevalenza dai distaccamenti di Teofilo Fontana, divenuto in seguito sindaco di Montefiorino, di Barbolini e di Balin di Farneta. Fu interrotto l’acquedotto, la linea della corrente elettrica ed il telefono, isolando praticamente i fascisti i quali erano costretti a qualche sortita di notte per cercare di rifornirsi di acqua alle poche sorgenti, rischiando così di venire colpiti dal tiro partigiano, o fatti prigionieri.

Uguale opera di disturbo si compiva nei confronti del presidio di Frassinoro costringendo i carabinieri a disertare: anche i carabinieri di Montefiorino disertarono portando le armi ai partigiani. Davide, commissario generale della Divisione modenese, di fronte alla mancata distruzione dei presidi di Toano e di Frassinoro nel modenese, evacuati dalle GNR, e preoccupato di vedersi sfuggire gli uomini con le armi da Montefiorino e da Piandelagotti decise l’attacco su Montefiorino.

Intanto si era sparsa la voce che i fascisti durante la notte avrebbero tentato di istallarsi nelle case di abitazione della periferia del paese, perciò i comandanti partigiani decisero di sospendere l’ordine di attacco, in assenza di Davide. Sul tardi dello stesso giorno pervenne a Davide la notizia che nella notte i militi avrebbero tentato di sfuggire al blocco dei partigiani. Davide risolse immediatamente il da farsi: con il distaccamento di Balin si mise in posizione sul greto del fiume dove pensava avrebbero tentato di passare. Verso l’una o le due di notte, infatti, i militi, in mezzo alla nebbia e sotto la pioggia, tentarono di forzare il blocco partigiano. Pochi colpi furono sufficienti per provocare lo sbandamento di oltre una settantina di uomini armati di mitragliatrici, fucili mitragliatori, bombe e mitra. All’alba i partigiani iniziarono il rastrellamento degli sbandati catturando due sergenti (Tavoni e Fontana), un tenente ed una quarantina di militi.

Appena apprese la notizia della liberazione di Montefiorino, Armando diede ordine di portarvisi per unirsi con tutte le formazioni partigiane. La prima formazione che entrò in Montefiorino fu quella di Balin, con Davide.

A Montefiorino si riunirono tutte le formazioni partigiane costituendo un comando unico. Il territorio liberato era vastissimo ed in quella zona riprese la vita civile di quella che fu chiamata la « Repubblica di Montefiorino ». A Montefiorino, nei primi giorni della « Repubblica » ebbi la responsabilità politica, in sostituzione di Davide, partito in missione speciale: in seguito avemmo notizie di un lancio di armi avvenuto nella zona di Gombola, presidiata dalle forze di Marcello, il quale intendeva trattenerle per sé; fui incaricato dal comando del ricupero delle stesse.

Partii per Gombola con un camioncino, accompagnato da due partigiani, con la ferma intenzione di non fare ritorno a Montefiorino se non dopo avere ricuperato le armi. Il compito non era facile perchè Marcello, che intendeva operare in modo autonomo, non riconosceva il comando di Armando: un altro tentativo era già stato fatto per il ricupero, ma senza risultato. Arrivato a Gombola, e precisamente a Casa Picciniera, dove egli aveva il comando, chiesi di Marcello e cominciammo a discutere la questione del lancio di cui egli rivendicava la proprietà. Dopo una lunga ed animata discussione lo convinsi a venire con me, al comando di Montefiorino, promettendogli che avrebbe ottenuto una parte delle armi paracadutate, in proporzione ai partigiani che comandava. Caricammo le armi sul camioncino con il quale eravamo arrivati e partimmo alla volta di Montefiorino; qui si fermò alcuni giorni ed infine accettò di inserirsi, con i suoi partigiani, nel costituendo Corpo dArmata come comandante della 4a Divisione « Carlo Scarabelli », accettando me come commissario divisionale.

Avevamo idee politiche diverse, ma mai venne meno la più stretta collaborazione.

Con la liberazione del presidio di Montefiorino ci trovammo praticamente padroni di un territorio vastissimo di circa 900-1000 chilometri quadrati. Se alla presa di Montefiorino le nostre forze si potevano valutare a circa 2000 partigiani esse andavano rapidamente aumentando raggiungendo, verso la fine di giugno, il numero di 5000 partigiani, più 2000 reggiani. La liberazione del territorio comprendente la « Repubblica di Montefiorino » e l’eliminazione dei presidi fascisti era stata l’opera di formazioni modenesi e reggiane, che pure operando di comune accordo, erano due unità distinte. La costituzione di una unica zona libera ne determinò l’unificazione.

Verso il 20 giugno 1944 fu costituito il Corpo d’Armata del Centro Emilia: tale fu il nome assunto dalle forze modenesi e reggiane riunite. Il Corpo d’Armata ebbe il seguente inquadramento: comandante del Corpo d’Armata, Armando (Mario Ricci, PCI); commissario generale Eros (Didimo Ferrari, PCI); vice comandante, Miro (Riccardo Cocconi, partito d’azione); vice commissario, Davide (Osvaldo Poppi PCI); capo di stato maggiore, Nardi (Mario Nardi, partito d’azione); intendente generale, Libero Villa (partito d’azione).

Le divisioni furono così suddivise: la Divisione, comandante Barbolini (Giuseppe Barbolini, PCI); commissario, Wainer (Severino Sabbatini, PCI); 2a Divisione, comandante Mario (Iris Malagoli, PCI); commissario, Tullio (Tullio Tincani, PCI); 3a Divisione, comandante, Angelo (Renato Giorgi, partito d’azione); commissario, Pellegrino (Martino Pellegrino, PCI); 4a Divisione, comandante, Marcello (Marcello Catellani, monarchico), Commissario, Guido (Torquato Bignami, PCI).

Le Divisioni reggiane furono così suddivise, comandante Sintoni (Fausto Pataccini), commissario Benassi; 2a Divisione, comandante Sauro (Rottenstreik Sauro), commissario Prato (Aristide Papazzi). Le forze modenesi contavano, come riserva, a disposizione del comando, quattro battaglioni composti da circa 100 uomini ciascuno, fra questi un « battaglione russo » comandato dal capitano Vladimir Pereladov e che aveva come commissario il tenente Anatoli Tarasofr e che noi consideravamo la nostra punta di diamante per lo spirito di disciplina, di decisione, di capacità. Inoltre era stato creato un commissariato generale del quale facevano parte tre comunisti: Ercole (Adelmo Bellelli), Secondo (Luigi Benedetti), e l’avv. Enzo Gatti, tutti di Modena.

L’occupazione non fu una occupazione solo di carattere militare, ma significava il ritorno ad una vita civile e democratica, la quale, se da una parte contribuiva ad accelerare la disfatta fascista, dall’altra favoriva il passaggio della resistenza da fenomeno di minoranza a movimento di massa, sottraendo migliaia di giovani alla chiamata alle armi ed alla deportazione. Cercammo, nei limiti del possibile, di organizzare l’amministrazione comunale e facemmo anche le elezioni amministrative nelle quali furono rappresentati tutti i partiti facenti parte del CVL. Era un tentativo di gettare le fondamenta di una nuova società, più democratica, più umana, poiché la liberazione sembrava imminente. Si istituì un servizio sanitario posto nella zona di Fontanaluccia dove i feriti di una certa gravità venivano curati da medici partigiani.

Organizzammo i rifornimenti alimentari creando magazzini di generi vari che venivano distribuiti alla popolazione. Si organizzò la giustizia e, nella misura del possibile, furono pagate anche le pensioni e i sussidi a chi ne aveva diritto. Potemmo anche ricevere molti lanci di armi che ci misero in grado di armare le nuove leve e di aumentare la nostra potenza di fuoco.

Evidentemente l’esistenza di forze considerevoli preoccupava il comando tedesco. Ci proposero, tramite il maresciallo maggiore Lakfam, quanto segue: il generale Messerle propone:

1°) la completa passività da parte delle truppe tedesche nei riguardi delle ritorsioni su paesi e civili;

2°) sospensione dei rastrellamenti da farsi nelle zone battute dai Patrioti,

3°) il rilascio in massa di tutti gli ostaggi trattenuti in carcere o in campo di concentramento;

4°) nessuna ritorsione sulla popolazione di qualsiasi paese in questa zona.

Chiede:

1°) che siano rilasciati in massa tutti i tedeschi ufficiali e soldati;

2°) che non siano perseguitati i familiari i cui componenti lavorano per i tedeschi e che nulla sia tentato per nuove ritorsioni a danno di terzi.

La proposta viene fatta dalle forze armate tedesche e non personalmente dal generale Messerle. La risposta dei partigiani fu decisamente negativa. Il CUMER non era d’accordo che noi formassimo un Corpo d’Armata e vi furono parecchi dissensi. Il 27 luglio giunse a Montefiorino, per una ispezione, l’ufficiale di collegamento del CUMER, Toetti (Bruno Gombi). Egli tenne diverse riunioni al comando e cercò particolarmente di persuadere Armando e Davide sulla necessità di sciogliere il Corpo d’Armata e di dividere, anche formalmente, le forze modenesi da quelle reggiane. Toetti ci informò della costituzione del CUMER e della delegazione Emilia nord, dalla quale sarebbero dipese le province di Reggio, Parma, Piacenza.

Tutto questo non significava affatto che le forze modenesi non avessero più dovuto mantenere relazioni con quelle reggiane, che peraltro costituivano l’unico fianco sicuro di quelle modenesi; ma che, al contrario, i rapporti esistenti dovevano essere rafforzati e concretizzati in azioni comuni, come del resto già avveniva. Egli voleva che noi dividessimo le nostre forze da quelle reggiane perchè queste sarebbero dipese dal comando di Parma. Egli voleva anche che noi costituissimo di nuovo il comando divisione poiché, a suo parere, non avevamo le forze sufficienti per un Corpo d’Armata; tant’è vero che in un comunicato del CUMER del mese di luglio, in un elenco delle Brigate emiliane, per Modena figuravano quattro Brigate più il comando divisionale. Noi mantenemmo ugualmente la denominazione di Corpo d’Armata perchè, a nostro avviso, le forze esistevano ed erano in continuo aumento per il costante afflusso di volontari. Inoltre nell’Italia settentrionale, le Divisioni partigiane erano formate da circa un migliaio di uomini.

All’alba del 29 luglio ingenti forze tedesche lanciarono l’attacco contro la « Repubblica di Montefiorino », dando inizio a quello che fu il più importante combattimento campale della Resistenza, « una battaglia logorante », la più grossa fra quelle subite dall’invasore in Italia. Lo svolgimento della battaglia è noto, molti errori furono commessi, ma a mio parere l’errore più grave fu quello di porre eccessiva fiducia negli alleati, i quali, all’ultimo momento, preferirono addirittura far saltare il deposito di armi preparato in previsione di un lancio di paracadutisti della « Nembo », piuttosto che darlo alle forze partigiane; nel credere soprattutto in una rapida liberazione del territorio italiano; nel credere che i tedeschi ci avrebbero tollerati dato che, in caso contrario, avremmo dovuto prepararci in tempo a riprendere la lotta di movimento, lotta naturale per i partigiani, approntando depositi di armi e munizioni al di fuori del territorio della « Repubblica ».

Per sottrarci all’accerchiamento ed alla conseguente distruzione la maggior parte delle forze modenesi si portò nella zona Ospitale-Rocchetta, altre sconfinarono in Toscana. Circa tremila uomini riuscirono a portarsi ad est della via Giardini. L’obiettivo dei tedeschi di distruggere le forze partigiane era completamente fallito.

Verso la metà di agosto, mentre alcune formazioni rimanevano con Armando e Davide nella valle del Panaro, molte ripassavano ad est della via Giardini e si riunivano con quelle rimaste fin dall’inizio nella valle del Secchia. Si organizzarono nuovamente le fila partigiane creando cinque nuove Brigate ed io ebbi l’incarico di commissario della Brigata « Antonio Ferrari » comandata da Claudio (Ermanno Gorrieri), ma di preferenza rimanevo con il rimanente degli uomini che restavano della ex 4a Divisione e che ora erano passati sotto il comando del Toscano e che avevano come commissario Piero (Sergio Cipolli), uno dei più prestigiosi commissari della Divisione « Modena ». Iniziammo una marcia che ci doveva portare verso Monte Balanzone-Varana dove, malgrado la vicinanza della pianura, prevedevamo fosse più facile rifornirci.

Intanto, l’11 ottobre, venne informato il CUMER che Armando, incalzato dalle truppe tedesche, aveva ripiegato oltre il fronte. Fu di nuovo necessario riordinare le fila partigiane creando due raggruppamenti di forze: uno che aveva come obiettivo Modena, l’altro Bologna e quest’ultimo era denominato Gruppo Brigate «Est Giardini». A capo di questo Gruppo fu messo Angelo (Renato Giorgi) ed io ero commissario. Verso la fine di settembre ci spostammo in direzione di Benedello dove avvennero diversi scontri con i tedeschi: nei primi giorni di novembre, mentre con Angelo cercavamo di riunire tutte le forze che il CUMER aveva messo sotto il nostro comando, il grosso delle nostre forze si trovò impegnato in un grave combattimento, a Benedello, uscendone gravemente provato ed avendo quasi del tutto consumate le munizioni. Malgrado tutto eravamo fermamente decisi a continuare la lotta e a raggiungere l’obiettivo di Bologna che ci era stato assegnato. Attendemmo alcuni giorni un lancio d’armi che ci era stato promesso tramite l’ufficiale di collegamento radiotelegrafista Ennio, ma inutilmente. Eravamo ancora in un migliaio di uomini, quasi senza munizioni, con moltissimi malati e feriti ed in una situazione disperata.

Fummo costretti, malgrado tutto, a passare il fronte. Dopo il durissimo combattimento di Benedello la situazione delle nostre forze era diventata impossibile per mancanza di munizioni, scarpe, indumenti pesanti. Dopo avere atteso invano un lancio d’armi promessoci dagli alleati, tramite l’ufficiale di collegamento Ennio, ci riunimmo per discutere la situazione. Eravamo quasi circondati dai tedeschi poiché, trovandoci nella zona di Monte Specchio avevamo i tedeschi a Ranocchio, a Salto, a Montese, a Rocchetta e a Sestola. La nostra potenza di fuoco era limitatissima, avendo solamente poche centinaia di colpi e di conseguenza non eravamo in grado di sostenere un attacco. Inoltre il morale degli uomini era molto basso. Il rimanere in tali condizioni avrebbe inevitabilmente portato allo sbandamento degli uomini ed alla loro fuga al di là delle linee. Malgrado queste condizioni il comandante Angelo ed io cercammo di convincere gli uomini ad un ulteriore sforzo per il proseguimento della lotta nelle retrovie nemiche. Non ottenendo tale scopo fu deciso, unanimemente, il passaggio del fronte effettuato a Monte Riva.

Raggiungemmo Armando a Lizzano in Belvedere unendo nuovamente le nostre forze e ricostituendo il comando: Armando fu nominato comandante ed io commissario divisionale. Ercole sarebbe certamente stato nominato al mio posto, ma essendo malato fu ricoverato all’ospedale di Firenze. Il governo italiano cercò a più riprese di inquadrare le nostre forze nell’Esercito italiano, mantenendo i gradi che avevamo nei partigiani, ma noi rifiutammo perchè intendevamo operare a fianco degli alleati mantenendo la nostra fisionomia partigiana. Il Governo italiano ci aiutò nella persona del generale Angelo Cerica, il quale ci diede tutto il necessario per le cucine da campo; ci fu proposto di venire retribuiti in base al grado, come in uso nell’esercito regolare, ma noi chiedemmo di potere distribuire autonomamente la paga, per poterla dividere in parti uguali, a prescindere dal grado, ma la nostra richiesta non fu accettata e noi rifiutammo alla unanimità l’offerta di danaro.

Penso che solo alla Divisione « Modena » come tale sia toccato il privilegio di avere il riconoscimento da noi avuto dagli alleati, mentre le altre forze, comprese alcune Divisioni dell’esercito italiano, combattevano alle dipendenze degli stessi.

Restammo cogli alleati fino alla liberazione di Modena.

Autore: Comandante Lupo

Ho ricercato e raccolto storie di vita, di guerra, di resistenza. Ne ho pubblicate, altre sono ancora da scrivere. Sono sempre alla ricerca di nuove storie se vuoi aiutarmi nella ricerca contattami.

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