Renata Viganò


Nasce il 17 giugno 1900 a Bologna. Desiderosa di diventare medico, dovette interrompere il liceo, a seguito di sopravvenute difficoltà economiche familiari. Con decisione prese il suo «posto nella classe operaia». Fece prima lʼinseviente e poi lʼinfermiera negli ospedali bolognesi. A soli 13 anni ebbe pubblicata una prima raccolta di poesie (Ginestra in fiore) e, dopo aver preso a lavorare continuò a scrivere poesie, elzeviri e racconti che vennero pubblicati su vari quotidiani e periodici.
Dal 9 settembre 1943 con il marito Antonio Meluschi, scese in campo nella lotta di liberazione compiendo «la cosa più importante – come ha scritto ella stessa – nelle azioni della mia vita». Aiutò gli sbandati. Collaborò al ciclostilato clandestino “La Comune” edito a Imola, a partire dallʼ1 gennaio 1944 dove sul numero 5 apparve il suo articolo significativo Le donne e i partigiani.

“L’armata partigiana è all’opera. Combatte dappertutto la sua guerra. È un esercito senza parate, né riviste, né divise. I capi non hanno gradi sulla manica, non portano cordoni, medaglie e piume, come usava nei buffoneschi cortei condotti a passo di carica dal luetico testone di Mussolini. Spezzano il pane coi loro soldati e bevono il vino nello stesso bicchiere, ma si riconoscono perché sulla faccia hanno la fredda decisione e la dura serenità di chi è avvezzo a comandare. Sono seguiti dai loro uomini perché portano con coscienza il peso della responsabilità. I distaccamenti e le brigate di questo esercito sono sparsi dovunque ma un ordine li riunisce e non aspettano allora il rimbombare di paroloni retorici per entrare nella battaglia. Quando marciano, non hanno fanfara. Vanno in silenzio, ascoltando il parlare del loro cuore. Qualche volta cantano, e cantano per voi, donne d’Italia. Stanno attorno a un misero fuoco di bivacco, nei riposi fra un rischio di morte e un altro rischio di morte, e vien fuori il ricordo della bionda del sobborgo o della bruna che passava sull’aia. Ritorna l’immagine della sposa che non si può andare a vedere, eppure lo si desidera tanto, della mamma che, ormai, ha fatto tutti i capelli bianchi. Cantano e combattono per voi, che siete le loro donne.
Dalla vittoria dipendono il vostro benessere di domani, la tranquillità delle vostre case, la felicità di cui, in mezzo al dolore, avete dimenticato l’aspetto.
Per questo essi sono partiti dalle città, dai paesi, hanno lasciato il proprio lavoro, le proprie ambizioni, la casa, la famiglia, hanno rinunciato a tutto, per andare a fare una vita dura, mangiare male, dormire per terra, al freddo, inseguiti come bestie alla macchia. Sono di diversa condizione ed età, operai, contadini, studenti, professionisti ma lo stesso dovere ed amore li ha resi uguali, fratelli. Non furono chiamati dal miraggio di lauti stipendi, come i volontari assassini della guardia repubblicana. Vogliono salvare la patria, e per questo vanno a morire.
Voi dovete amarli, donne, e aiutarli quando potete. Se un partigiano ferito o fuggiasco, vi entra in casa, curatelo e nascondetelo, indicategli la via di un sicuro rifugio, difendetelo dall’odio spaventato dei feroci deficienti che lo perseguitano, dategli cibo e coperte.
Ma non dovete attendere che il caso porti presso di voi un patriota per rendervi utili; collaborate al servizio informazioni e al servizio rifornimento dei combattenti, cucite con le vostre mani amorose gli indumenti che debbono proteggerli dal freddo, preparate le bende che accelereranno la guarigione delle loro ferite, confezionate e spedite dei pacchi dono, testimonianza concreta della vostra affettuosa cura. Ricordatevi l’esempio luminoso delle nostre donne del Risorgimento, sempre a fianco dei loro uomini nel momento più grave della lotta. Tutto ciò che farete per i partigiani vi sarà reso al mille per cento, dalla patria riconquistata.
E se qualcuno della vostra famiglia, qualcuno caro al vostro cuore vuol raggiungere i combattenti, non opponetevi, non piangete. Apritegli la porta e lasciatelo andar via. È l’unica strada giusta per un uomo, oggi, e ne sarete fiere e felici domani, quando, nelle città liberate, il vessillo scarlatto della giustizia sostituirà i tetri gagliardetti dei ladri e degli assassini.”

Fu infermiera dei partigiani nelle formazioni della 28ª brigata Gordini Garibaldi operanti in Romagna e nella Valle di Campotto, fino allʼaprile 1945. Il suo nome è stato dato a un nido dellʼinfanzia a Bologna.

I suoi ricordi

Ho scritto «L’Agnese va a morire» come un romanzo, ma non ho inventato niente. È la mia testimonianza di guerra. È la ragione per cui la Resistenza rimane per me la cosa più importante nelle azioni della mia vita. L’ho vissuta prima di scriverla, e non sapevo di viverci dentro giorno per giorno. Il personaggio dell’Agnese non è uno solo. Non ho conosciuto una donna che si chiamasse Agnese e che abbia compiuto quello che ho raccontato di lei. Ma tante «Agnese» sono state insieme a me nei fatti e negli eventi, e gli eventi e i fatti o accadevano veramente tanto vicini da averne diretta sicurezza di verità, oppure erano tali che vi partecipassi io stessa, qualche volta anche senza saperlo nel momento, e avendone coscienza più tardi.

L’Agnese è la sintesi, la rappresentante di tutte le donne che sono partite da una loro semplice chiusa vita di lavoro duro e di famiglia povera per aprirsi un varco dopo l’altro nel pensiero ristretto a piccole cose, per trovarsi nella folla che ha costruito la strada della libertà. Se non ci fossero state loro, le donne, operaie, braccianti, contadine, di pianura e di montagna, che si abituavano alle «cose da uomini», e a poco a poco capivano ognuna secondo la propria intelligenza, con coraggio e con paura, che «così» bisognava fare, che quella soltanto era la via da seguire, l’esercito partigiano avrebbe mancato di una forza viva, necessaria, spesso determinante. La donna del popolo è combattente, quando combatte per sé e per i suoi, sia contro la povertà in pace, sia per la vita in guerra, la guerra partigiana non maledetta come quella di conquista, ma accettata e condotta per vincere i nemici di ogni tempo, oppressori in patria e aggressori stranieri.

Io non sono nata dal popolo. Non ho avuto perciò il grande insegnamento di un’infanzia dura, di genitori premuti da lavori faticosi, da privazioni quotidiane. Ma la mia estrazione borghese non impedì che fossi portata a preferire le persone del popolo alla vellutata, stagnante, bigotta simulazione della classe cui appartenevo. Di questo ringrazio mia madre che mi allevò con una sua sommessa ma tenace ribellione a quella specie di «razzismo» che allora era prepotente e generico nella borghesia e nobiltà. Essa mi insegnò che «tutte le bimbe e i bimbi erano uguali a me», anche se non avevano vestiti belli e giocattoli, e andavano a scuola solo fino alla terza elementare. La sua origine di benestante montanara mi permetteva, nelle lunghe villeggiature a Monghidoro e paesi vicini, di avere compagni molto più interessanti dei «signorini» di città, e divenni esperta nelle ricerche di more, funghi, lamponi, mirtilli, brava nell’arrampicarmi sulle rocce e sugli alberi, pratica di passaggi impervi e di soste sugli alpeggi, da cui rientravo con le mie amiche pastorelle, scura di sole e graffiata dalle spine.

Nel 1918, quando la guerra ci aveva portato via due ragazzi della famiglia e provocato il dissesto della nostra azienda, lasciai gli studi alla terza liceale classica, abbandonai il sogno di diventare medico, e rimasi con tre miei carissimi costretta ad un immediato lavoro per vivere, non trovai nel vuoto mentale della cerchia di amici e parenti ricchi che vaghe offerte di posti: governante di bambini per la mia cultura e soprattutto la conoscenza della lingua francese o dama di compagnia di persone anziane: ambigue situazioni che andavano dalla forma caritatevole e paternalistica dei padroni al pericolo di essere poi manovrata in una specie di spionaggio contro le persone di servizio.

Ero giovane, ma superba e ombrosa, capii che sarei stata sopportata dagli uni e sospettata dagli altri. Piantai con un taglio netto ogni rapporto con i ranghi borghesi e andai a fare prima l’inserviente poi l’infermiera negli ospedali. Era il lavoro che mi piaceva perchè avevo tanto desiderato gli studi in medicina, e anche se allora umiliato, mal retribuito e faticoso, non me ne sono mai pentita. Così ebbi il mio posto nella classe operaia.

Il 1932 fu l’anno che il regime fascista decise di imporre la tessera a tutti i dipendenti statali, parastatali eccetera, e vennero fuori guai e scandali. Chi si rifiutava perdeva il posto. Così undici docenti di cattedre universitarie o primari di cliniche, tra i quali il professor Bartolo Nigrisoli, se ne andarono: undici soli nomi in tutta Italia. Altri preferirono continuare la loro bella e comoda strada, illudendosi di non concedere niente al fascismo, altri, e molti, aderirono con convinzione. Forse lo stesso Mussolini non credeva di avere tanto seguito nell’alta casta dell ‘intellighenzia ufficiale. Noi degli ospedali fummo sottoposti ad una azione molto sbrigativa: il direttore di ogni istituto compilò l’elenco del personale e fece la richiesta in ordine alfabetico: i due presentatori di rito per la tessera furono lui medesimo e un altro qualsiasi. Due firme in fondo a ogni elenco, e la decurtazione del salario di dieci lire «per la domanda».

Io ero infermiera e prendevo sedici lire al giorno, gli inservienti ne prendevano appunto dieci: un giorno di lavoro, o quasi, sfumato, e quel che era peggio il nostro nome su quelle liste. Ci dettero una ricevuta e avremmo dovuto andare a ritirare la tessera mediante un avviso a «mezzo cartolina». Con la cartolina, il regime regolava tutto: dalla chiamata alle armi all’imposizione di partecipare alle adunate oceaniche. A suo tempo ricevetti la cartolina, ma non mi presentai né allora né mai.

Nella mia condizione di ragazza sola — dopo la morte della mamma, del papà e della Tata, la vecchia bambinaia da trentacinque anni nella famiglia e che fu l’ultima a scomparire — in un gravoso lavoro senza avvenire, vivevo con un senso di provvisorietà, di distacco, come in una esistenza non mia, dove le vicende del paese, del fascismo, del governo, della dittatura, non mi toccavano gran chè: tenevo alla casa, un piccolo appartamento comperato con gli ultimi avanzi del naufragio. I miei mobili ricchi ricostruivano un quadro del passato, silenzioso e un po’ triste, ma in certo modo eccitante, e mi ero affezionata all’ospedale, ai malati, al mio impegno, non per un senso retorico di abnegazione, ma perchè, anche così duro, mi piaceva.

Avevo molte compagne con cui andavo d’accordo, ma pochissime amiche. Facevamo dei turni così lunghi che rimaneva non molto tempo per stare insieme fuori, e in quei casi, si andava al cinema. C’era in servizio, nel mio reparto di malate croniche, uno strano alloggiamento di emergenza che, come sempre nel nostro paese, durava da lustri, una ragazza bionda, un po’ grassa, calma, dolce, che si chiamava Bianca Fontana. Più giovane di me, sembrava che fosse una mia sorella maggiore, tanto era buona: spesso andavo a casa sua, e sua madre mi faceva crescentine fritte, come una volta la Tata per noi bambini a merenda. Era un bella faccia da contadina, con gli occhi celesti in una rete di rughe fitte agli angoli quando sorrideva.

Mi raccontavano come il fratello e il fidanzato della Bianca erano all’estero a lavorare, ma senza altri particolari. La Bianca mi confidava di esser molto imbarazzata a rispondere alle loro lettere, specialmente al fidanzato. «Devo ripetere sempre le stesse cose», diceva. «Io di faccia non lo conosco. Ci siamo fidanzati da lontano perchè è insieme a mio fratello». Mi parve una cosa singolare, ma non mi piaceva esser curiosa. La verità la seppi la mattina che venne fuori la storia della tessera del fascio; la Bianca me lo disse piangendo: «Mio fratello e il mio fidanzato sono in prigione, non all’estero a lavorare». «Avranno fatto qualcosa!» — pensai ignara. «Condannati dal Tribunale speciale perchè sono comunisti» disse la Bianca. «Adesso posso dirtelo, mi fido di te. Ma come faccio con la tessera? A me non la danno perchè si informano e scoprono che sono parente di un carcerato politico. Perderò il posto».

Fu uno chok: nella mia vita chiusa non sapevo che esistessero ancora i carcerati politici, mi parevano cose dei libri di storia, roba dell’ottocento, Silvio Pellico, lo Spielberg… Invece no, erano vivi, attuali, e a causa di quei tali in camicia nera che del resto mi erano sempre stati antipatici per istinto. Toccai terra come se scendessi da un pallone, e da quel momento odiai tutto ciò che era fascista, i loro canti, i loro motti, il loro aspetto funereo. Decisi che non avrei mai preso quella tessera, trovai modo che anche alla Bianca fosse risparmiato il danno; a poco a poco lei mi fece conoscere altri compagni e compagne, imbastii le mie prime nozioni di socialismo, che alla radice non si dipartivano poi tanto dagli ingenui insegnamenti della mia mamma. Non si poteva altro se non trovarci insieme tra gente fidata, e parlare, imparare, costruire la nostra voglia e speranza di rivolta, incominciare senza saperlo la Resistenza.

Il primo gesto attivo che feci fu di andare con la Bianca sulla strada del canale di Reno, lungo il muro esterno della Certosa, dove era segnato a calce il punto della tomba del figlio di Zanardi. Il giorno dell’anniversario si gettava al di sopra del muro dei garofani rossi, e andavano in tanti, in ordine sparso, lunghe file a passeggio sulla riva del canale. A quel dato sfrego sul muro un fiore, due, volavano in alto. Malgrado le due grinte nere che nell’interno facevano la guardia armata, il mattino dopo la lastra di marmo di Libero Zanardi era coperta di garofani rossi.

Per un condono di cinque anni di pena, i «politici» tornarono a casa, sia pure in libertà vigilata: Aurelio Fontana, il fidanzato della Bianca di cui non ricordo il nome, Mario Peloni che venne a casa mia la sera dell’arrivo, e facemmo una festicciola, con la sua Elsa, che l’attendeva da anni, la Maria Baroncini e altri, ballando al suono di un grammofono tenuto molto basso per via dei vicini. La Bianca morì di tisi fulminante il 21 marzo 1935, e non arrivò a sapere che nel dicembre incontrai per tutt’altra strada il compagno Antonio Meluschi, anche egli uscito dalla galera, dove si era trovato con Aurelio, Mario, Leonildo Tarozzi e gli altri, e ci sposammo pochi mesi dopo.

Lui pettinò la matassa un po’ arruffata dei miei pensieri, e incominciai così la mia vera «scuola di partito». Furono per noi sempre giorni ed anni precari, pieni, raggianti, paurosi: avemmo le visite della polizia, il richiamo alle armi di mio marito, che per due volte si risolse in nulla di fatto, la nascita di nostro figlio Agostino, a poco a poco, ai limiti della guerra, ci lasciarono in pace. Avevano, i fascisti, ben altro da pensare.

Il 9 settembre 1943 il mio compagno partì con Pino Beltrame con una radio clandestina trasmittente, e io aiutavo gli sbandati dell’esercito distrutto a rimediare vestiti borghesi, dando via tutto quel che rimaneva di indumenti maschili. Ho incominciato la mia lotta partigiana in compagnia della paura. In principio, mentre ero ancora a Bologna, mi terrorizzavano le incursioni aeree. Non riuscivo a raffigurarmi che cosa fosse il crollo di una casa, credevo che i muri si rovesciassero come quinte, invadendo tutti gli spazi, creando monti di pareti sovrapposte, con le persone sotto, come a strati di corpi, e sopra i mattoni, le finestre, le porte, i mobili. Ai primi bombardamenti vidi che invece i portici, le costruzioni, i campanili, si affondavano, si sfacevano, quasi si risucchiavano nel vuoto del sottosuolo.

Rimaneva molto meno di quanto credessi, e tutto era a brani, in polvere, un mucchio irriconoscibile dove prima era un palazzo. La gente non si vedeva molto: vi erano gruppi qua e là per quei viottoli che rimanevano delle strade, ma apparivano frettolosi, ognuno andava per conto proprio, sempre ansimanti di correre verso una méta ignota, oppure con volti stranamente euforici, come stupefatti di essere ancora
vivi.

Da parte mia ebbi fino dal primissimo allarme aereo l’avversione ai rifugi, inutilmente mi ripetevo che i morti in genere si trovavano fuori, allo scoperto, chi non aveva fatto in tempo a ripararsi, chi era stato raggiunto dallo spostamento d’aria di una bomba scoppiata a distanza e sbattuto contro un muro intatto. Tanti, mi dicevano, si salvano semplicemente in cantina. Per me era impossibile quell’attesa sottoterra, nel silenzio terribile che seguiva l’urlo ripetuto delle sirene d’allarme, il respiro sospeso per cogliere il ronzare degli apparecchi, i rumori ignoti di scoppi che potevano essere quelli dell’antiaerea ma anche delle bombe. Odiavo poi come nemici le altre persone che si trovavano laggiù, tutti ormai pratici, organizzati, esperti e addirittura avrei preso a schiaffi gli immancabili che fornivano informazioni gratuite come: «adesso sono sulla stazione, cercano i comandi e le caserme, vogliono colpire il campo di aviazione», oppure gli ottimisti che avevano amici e cugini nell’aeronautica, e assicuravano: «Bologna è situata in modo che dall’alto non si vede». Mi accadeva di lasciare il rifugio dopo aver resistito del mio meglio, ma di uscire di corsa proprio quando, se c’era, avrebbe cominciato il bombardamento.

Finì che scappavo invece verso le porte della città, correndo a piedi in quel torrente di moto, automobili, biciclette, barroccini, side-cars, che si precipitava alla disperata, e se uno fosse caduto sarebbe stato un macello, e tanta era la paura di pensare che cosa mi poteva capitare, che incominciai a trovare un certo coraggio. Il fatto è che a quel tempo ero sola, con mio marito già partigiano e il mio bambino per il momento in salvo, perciò mi abituai a pensare che finché vedevo e sentivo, voleva dire che ero viva, e che tanto valeva metter perso tutto e accontentarsi di respirare. Questo è stato il segreto di ogni mia forza futura, e la spinta nelle azioni rischiose, ed ebbe valore anche quando mi trovai insieme con i miei, in un momento che poteva essere di morte.

Una sola paura non ho dimenticato mai, e fu retrospettiva. La passai senza saperlo e me ne accorsi il giorno dopo: anche ora, se mi succede di non prender sonno e mi viene in mente quel ricordo, riprovo il medesimo brivido, forse il più spiacevole e intenso di tutta la mia vita. Accadde quando eravamo nella Valle di Campotto, un catino immenso fra tre strade, nei pressi di Argenta. È una terra bassa che d’estate è folta di canne e di erbe palustri, e d’inverno si colma d’acqua e di fango. Vi corre un canale collettore, e per mezzo di una chiusa serve a scaricare un vasto territorio di campi e frutteti che altrimenti verrebbe ricoperto sin dalle prime piogge per lo straripare dell’argine del Reno.

Ci andammo ai primi di agosto del 1944, quando i partigiani tiravano avanti in Toscana la cosiddetta avanzata degli alleati, e si credeva che Alexander, sicuro di noi, pronti con intere brigate a spianargli la strada, avrebbe attaccato la linea «Gotica» e liberato, mediante l’aiuto delle città che via via sarebbero insorte l’Italia del nord. Invece lui arrivò a Firenze dopo che tutto era già stato fatto, e mise in moto il rallentatore, fino all’aprile dell’anno di poi.

Noi però non lo si sapeva altrimenti non avremmo scelto quel luogo di Campotto, del tutto estivo per fabbricarvi capanne di canna, scavare trincee antischegge e ammucchiare provviste che avrebbero dovuto servire per la popolazione, nel pericoloso momento del «passaggio del fronte». Dicevamo così, con ingenuità, passaggio del fronte, come una eventualità rapida e fugace, mentre al contrario esso si fermò dopo la presa di Ravenna, apprestò gli alloggiamenti invernali, la cui tormentata traiettoria investiva Alfonsine, a distanza di pochi chilometri e il suddetto Alexander ci fece il suo proclama che fino a primavera si poteva anche andare a casa.

Intanto, in quelle roventi giornate d’agosto, noi avevamo in Campotto un distaccamento di partigiani, vivevamo tra le canne gialle che non facevano un filo d’ombra, pareva d’essere in un paesaggio africano e diventammo scuri come beduini. Mio marito era occupato altrove, ed io avevo il compito, aiutata da una
donna e due uomini, di far da mangiare per tutti, sorvegliando il luogo, per rispondere agli estranei in cerca di «brilli» (Brilli, gambi di erbe palustri, duri, simili ai vimini.) lungo i sentieri, che stavamo accampati laggiù per paura dei bombardamenti martellanti le strade e il ponte della Bastia, a San Biagio sul Reno. Avevo con me il mio bambino di sette anni non compiuti da cui, pur nella vita in brigata, non volli mai separarmi. Di fatto, in quello strano soggiorno, lui si divertiva un mondo.

I «ragazzi» lo viziavano a non dire, nelle ore di riposo, gli facevano carrettini di stecchi e scopette coi ciuffi delle canne; poi scomparivano di sera, andavano in azione sulle strade, a caccia di trasporti tedeschi che spesso mettevano a ruote all’aria sotto la luna, e passavano poi i bombardieri angloamericani detti «Pippo» per prendersi il merito di buttar bombe sui falò. Al mattino rientravano lungo il sentiero del Traversante, raggiungevano l’accampamento, si spargevano silenziosi e scalzi tra i fruscianti gambi delle canne, e bastava che si sdraiassero a pochi passi in quel riverbero caldo e giallo per essere invisibili. Dormivano come piombi con la testa riparata appena da una frasca e tutto il corpo al sole. A mezzogiorno gli si portava da mangiare a uno per volta se pensavamo ci fosse qualche donna dei «brilli» in vicinanza, o ci riunivamo in quella che pareva la «piazza del villaggio», ossia una radura dove erano state tagliate le canne, per far spazio da accendere il fuoco.

Occorreva una prudenza estrema, perchè era la stagione degli incendi e tutta la conca secca poteva avvampare spontaneamente, all’improvviso, e questo sarebbe stato un bel problema. Debbo dire che non ci si pensava neppure. Il mio bambino, Agostino detto «Bu», era divenuto perfettamente addestrato, e si muoveva col fragile strisciare di una bestiolina di valle, senza una voce, in mezzo a «quei ragazzi». Così ormai li chiamavamo, e anche dopo, fino alla liberazione, quella rimase tra me e lui una parola magica, come «les maitres- mots» degli animali di Mowgli nei «Libri della Giungla». «Quei ragazzi», indicava una cosa nostra e privatissima di cui non si poteva far cenno con alcuno, e mai egli, così piccino, venne meno al segreto. Anche ora ci accade di dire «quei ragazzi», e questo significa per noi «i partigiani».

L’inconsueta villeggiatura fu interrotta di colpo a causa di due imbecilli che certamente partigiani non erano, ma si permisero di sparare a due tedeschi disarmati che andavano a pescare, e uno rimase ucciso e l’altro ferito. Questo accadde proprio all’imboccatura del Traversante, coinvolgendo nella rappresaglia la valle dove sorgeva l’accampamento. Già la sera stessa vedemmo levarsi fiamme lontane, verso il paese di Campotto, e all’alba i partigiani ci avvisarono di metterci in salvo chè loro con le armi si ritiravano in altri territori. «Scappate subito» ci dissero. «I tedeschi bruceranno la valle». La donna che mi aiutava, una delle tante «Agnese», aveva paura e voleva andare subito, ma io pensavo alle provviste, agli attrezzi, agli utensili di cucina, le cose necessarie che avevamo laggiù, e decisi, incautamente, di rimanere per nascondere almeno il più importante.

I due uomini si persuasero a fatica, e cominciammo a trasportare roba verso l’argine, caricando una barca abbandonata in un canale e allogandola legata sotto la riva fra i giunchi, l’erba alta e la mota. Faceva un caldo da morire, e con tanti giri pesanti si fece sera. Eravamo frastornati e storditi dalla fatica. Chissà perchè, forse per una mia idea balorda, stranamente sicura com’ero di quel rifugio tra le canne, aspettammo che fosse buio. Allora ci mettemmo in cammino per il ritorno, e giungemmo alla chiusa. Deserta: i guardiani se n’erano andati.

Era un fabbricato che scavalcava le acque torbide e svelte del collettore, e non v’era strada per passare ma solo una sorta di balconata attorno alla casa, non più larga di un metro e cinta da una ringhiera, così almeno ci parve nel chiarore incerto della luna non ancora levata. Ma la ringhiera era interrotta ogni tanto da uno spazio vuoto, da cui si manovravano le saracinesche. Ci avventurammo in fila su quel passaggio nel clamore della scura corrente che passava sotto. Ero così stanca che non pensai a prendere la mano del bambino: e lui mi precedette sfiorando il muro, senza toccare la ringhiera; a nessuno per fortuna accadde di spostarsi verso quella ringhiera a tratti mancante, altrimenti bastava un passo per precipitare. Bastava un passo di fianco perchè precipitasse soprattutto il bambino che per il sonno andava quasi a tentoni; un passo, un tonfo, la sua piccola ombra nera sparita, ed io l’avrei seguito d’istinto senza alcuna speranza se non di morire in fretta tutti e due.

Invece non ci accorgemmo di niente, arrivammo alla riva, respirammo la tenera frescura di un prato. Ci mettemmo a dormire più avanti, dietro una baracca dove finiva nel fiume la corrente del canale, in un delizioso fruscio di acqua placata. Ma fummo svegliati dai tedeschi che sparavano dall’argine nella valle con mitragliatori e pallottole traccianti, e mandarono durante la notte i soldati coi lanciafiamme per distruggere a lunghe righe di fuoco le capanne del nostro «villaggio». E in mezz’ora tutta la conca di canna secca divenne un falò.

Alcuni giorni dopo, io, testa dura, tornai sul posto per assicurarmi che non ci fosse nulla da ricuperare. Traversai la chiusa, vidi, alla luce del giorno, il passaggio stretto con i tratti di ringhiera vuoti sullo scroscio in pendenza del canale, l’acqua verde, densa di alghe, alta tre metri come appariva dal livello della sponda. Fu allora che soffrii quell’assalto di paura retrospettiva di cui ancora non mi sono del tutto liberata.

Di questo episodio voglio ricordare la donna che mi seguì, terrorizzata, ma senza esitazioni. Quella era una «Agnese» singolare, diversa da tutte le altre. Chissà quali eventi l’avevano portata giovanissima alla prostituzione. Aveva vissuto per anni nelle «case chiuse», cambiando città ogni «quindicina», e non conoscendo, di ogni città, se non la strada dalla stazione al «posto di lavoro»; come se tutte fossero uguali. Un giorno un uomo di campagna si innamorò e la tolse da quella vita facendone una moglie. Anche a lei era rimasta una specie di paura retrospettiva, come se facesse un sogno da cui poteva risvegliarsi. Mi raccontava tante cose torve e turpi, con perfetta innocenza, come non fossero successe a lei stessa. Salvo qualche licenza di linguaggio, che non appariva sboccato, ma piuttosto un ricordo, un’eco quasi di chi abbia vissuto per molto tempo in un paese straniero, adesso era una casalinga, ambiziosa dei suoi mobili nuovi.

Aveva trasportato in quella valle selvaggia un lucida madia, e le dispiaceva tanto perchè non era riuscita a
completarla con la vetrina per i bicchieri. Trovammo la nostra roba nella barca, ma i tedeschi avevano buttato dentro una bomba a mano. La barca era affondata nel fango, un ammasso di rottami. «Peccato per la farina e la pasta» — dissi. E lei rispose: «Tutto non si può avere». Ma mi accorsi che piangeva in silenzio, forse per la sua madia.

Per quanto ci pensi non mi ricordo il nome di questa donna: cominciava per «A». Adele o Amalia. So che poi dovette andarsene dal paese, dove tutti deridevano suo marito perchè l’aveva tratta da una casa di tolleranza. Mi rincresce di averla perduta di vista e di aver dimenticato come si chiamava. Ma spero che viva in pace come le altre vere donne di casa, e che abbia potuto comperare tutti i mobili che le piacevano tanto.

Una volta, già quando eravamo vicini all’offensiva di primavera, e i bombardieri angloamericani cominciavano a seminare il terreno per l’avanzata, vedemmo passare la «cicogna» sulla nostra piana spoglia, tra Alfonsine e Argenta. Noi avevamo allora il comando nella Rustica Malveduta, una casa di fango e sassi che pareva stesse in piedi per miracolo, e più precisamente a Casa Visentini, altro casolare semipericolante a meno di cento metri dove la stalla vuota di bestie era stipata di famiglie fuggite dagli spezzoni che sembravano centrare a tirasegno i fabbricati più dispersi. Mio marito, comandante della zona, aveva fatto costruire dagli abitanti di Mulino di Filo, due specie di rifugi per insufficiente riparo, poiché in quella terra di bonifica a un metro e mezzo di scavo si trovava l’acqua come se si trattasse di una enorme spugna. Erano però abbastanza rinforzati e spaziosi, e coperti con legni incrociati e traversine di rotaie tolte dal ponte della ferrovia distrutto da incursioni di apparecchi pesanti che sarebbero bastati a radere al suolo una mezza città: gli aviatori alleati facevano le cose in grande, ma, volenti o nolenti, avevano la mira storta!

Comunque, quella volta, la «cicogna» credette di vedere chissà quale obiettivo militare nello sparuto mucchio di case del Mulino di Filo, ed emise un sottile fumo bianco. Subito si udì il musicale suono dei motori in formazione, e il precipitare delle bombe, vicine, lontane, un rombo, un tremolio della terra che sembrava riempire l’orizzonte intero. «Dentro, dentro» — e giù donne e bambini strillanti sotto il modesto ricovero che col pestare dei piedi cominciava già a trasudare umidità.

Naturalmente io ero fuori, avevo orrore come sempre dei luoghi chiusi e meno che mai mi sentivo di stare immobile sotto le traversine della ferrovia col pensiero di tutto quel che poteva succedere se una bomba ci fosse caduta sopra. «Va giù» mi disse il mio sposo e comandante che in certi momenti mi trattava come se fossi l’ultima delle reclute. «Ma niente affatto», risposi. Corsi all’altro rifugio dove c’era un po’ di confusione per una donna svenuta, e intanto gli scoppi erano diventati come un muro di suono. Vidi al di là della Fossetta, un torrentello secco che separava l’aia dai campi, un uomo correre a braccia aperte lungo la cavedagna, e gridava «Aiuto, Aiuto!» E subito trovai Armando Montanari, detto E’Desch che mi disse di un disastro accaduto poco lontano, al di là della strada del paese.

Anche mio marito mi richiamava dicendo di «prendere le sporte», e salì in bicicletta infilandone una nel
manubrio. Io presi l’altra e mi misi sulla canna di E’Desch già in partenza. Le «sporte» era tutto ciò che avevamo di medicatura, iniezioni, materiale di primo soccorso più o meno efficiente, raccolto da noi durante mesi e mesi, a forza di bugie, di vecchie ricette, di compere in farmacie oneste ma desiderose di liquidare in qualche modo le scorte di prodotti in pericolo, oppure a colpi di borsa nera presso professionisti meno scrupolosi. Era un tesoro per quei tempi, e io me ne sentivo responsabile e depositaria, in una zona priva di medici, se non altro per la mia lunga esperienza di infermiera di ospedale.

Purtroppo non sapevo andare in bicicletta, brutto handicap nella pianura sterminata, ma avevo vinto una specie di «campionato» nell’andare «in canna», e questo voleva dire abbandonarsi come un peso morto, poiché tutti trasportavano sacchi e fasci in quel modo, ed era il mezzo di trasferta normale. Bastava poggiare l’esterno della coscia destra, tenersi al manubrio con una mano, allungare i piedi uniti per non incepparsi nel pedale, e il guidatore filava via come fosse solo. Irrigidirsi, abbrancarsi, fremere, significava sbandare e cadere. Io, piccola, leggera, padrona dei miei nervi, non costituivo un problema, e quasi sempre componevo col mio «autista» un tale equilibrio che ci permetteva di discendere i sinuosi sentieri degli argini, di superare le «cunette» fra cavedagne e campi, di proseguire lungo le «piantate», senza discendere di macchina.

Anche questa volta fu così, ma ad un tratto, E’Desch, sterzò bruscamente sul sentiero, gridò indietro a mio marito che ci seguiva a ruota: «Presto, presto». Non feci a tempo a scorgere, coi miei occhi miopi, un filo di fumo bianco-grigio, che già eravamo passati, ma intesi dietro un furibondo scoppio di qualcosa che si allargò nell’aria come una ventata. «Niente paura» — disse la voce del mio compagno e comandante, sempre pericolosamente troppo ottimista a mio parere. «Uno spezzone inesploso!». L’avevamo evitato per un soffio ed era saltato dietro di noi, uno di quegli spezzoni dei caccia bombardieri, che dovevano essere stati trattati in uno strano modo, poiché facevano una larghissima rosa di scheggie grosse e minute, e la più piccola che toccasse la pelle non mancava di produrre infezione.

C’era chi diceva che era causa delle vecchie tare di malaria esistente anni addietro in quelle terre basse, ma erano voci incontrollate, poiché tant’altra gente capitata laggiù da regioni di aria fina dove la malaria non aveva mai avuto presa, si ritrovava con le stesse infiltrazioni profonde di essudati che diventavano pus. I soliti misteri di proibitive esperienze scientifiche applicate alle azioni di guerra spietata!

Attraversammo la strada che divideva il villaggio e segnava anche il confine tra le province di Ferrara e di Ravenna. Gli alleati, cosiddetti, avevano avvertito con i soliti manifestini «Italia combatte» seminati dagli aerei, che i bombardamenti sarebbero stati eseguiti a duecento metri distanti dal tracciato delle strade, evitando i gruppi di case che le fiancheggiavano, ma come il solito gli aviatori pativano o di inesattezza
di mira o di mancanza di promessa, e ben prima di duecento metri ci trovammo davanti a spaventosi buchi e cumuli di macerie. Urli di feriti, pianti di sopravvissuti, immobilità polverosa di morti.

Lavorammo faticosamente intorno ai corpi straziati, liberandoli da pietre e da mobili a pezzi, vedemmo piccoli bimbi morti con le faccine ancora lucenti di lacrime e di vita. Pareva impossibile che non potessero più rialzarsi e correre sulle loro scarpine rotte. Mi rammento di una donna con le carni tanto sciupate di piaghe da ritrovare con difficoltà un lembo intatto per farle la puntura antitetanica, e una bella ragazza riccia e bionda cui un frammento di ferro aveva stracciata una mammella, come una stupenda statua mutilata. Eppure si salvarono entrambe, le rividi guarite dopo molti mesi, e la prima era riuscita a riprendere l’uso di gambe e braccia, e la più giovane era ancora bella, ma come una amazzone con un unico seno. Io non avevo dimenticato la loro faccia, ma esse, naturalmente, di ritorno dalla soglia della morte, non potevano riconoscermi. Stanchi di veder sangue e vite distrutte, rifacemmo la via di casa: questa volta non mi era facile tenermi salda in canna, anche il mio vigoroso Desch fece fatica a reggere quel sacco di patate che ero diventata contro il suo braccio.

E proprio presso il muro della Rustica Malveduta trovammo un tedesco: tutti gli altri di casa erano nel rifugio o in faccende, e lui lo teneva d’occhio la Giuditta, la mamma di Armando, che era una vecchietta quasi senza respiro per il mal di cuore, ma non aveva paura di nulla. Lui era nero di terra e fu per esser stato coinvolto in una esplosione, ma non pareva ferito. Aveva una maglia sporca e la giubba a brandelli, ma si vedeva sul lembo del colletto le striscioline a biscia delle SS. In quel momento sentivo scarsa la solidarietà imposta dalla mia professione, e l’avrei lasciato lì volentieri a mugolare raucamente contro quel muro. Ma non mancò un cenno imperioso di mio marito, sempre presente a se stesso, e scaricai le sporte, feci distendere l’uomo, gli esaminai e medicai le poche e leggere escoriazioni. Poi gli accennai di lavarsi in una secchia del pozzo, ed entrai dietro la Giuditta a bere qualcosa per togliermi la polvere dalla gola. Fu un attimo, ma quando uscii a riprendere la «farmacia» il maledetto nazista se n’era già andato con le mie sporte, lo cercammo dappertutto, lungo la Fossetta, tra le canne del macero, ma, chissà come, era stato ben svelto e non lo trovammo né allora né più, forse aveva incontrato qualcuno dei suoi, o aveva un mezzo per allontanarsi, una moto, una bicicletta. Il fatto è che non mi rimase più nulla delle mie medicature, né una preziosa scatola di punture di pantopon, né una ancor più preziosa ma esile scorta di iniezioni antitetaniche. Nulla. E il «passaggio del fronte» imminente, e la solita preparazione a base di bombe a tappeto! Giurai che mai più, ad onta delle leggi internazionali, avrei steso una mano a curare un nemico: un nemico come quello, una SS.

La Pasqua, nell’anno 1945, cadeva il 1° aprile, e non era un pesce. Sapevamo tutti che il giorno dopo, finalmente, sarebbe cominciata, da parte degli alleati, in ritardo di quasi un anno, la tanto attesa offensiva di primavera, altrimenti detta «liberazione». Per noi partigiani voleva dire sgomberare il terreno dal primo all’ultimo tedesco che vi fosse rimasto, in caso contrario gli angloamericani, arroccati da sei mesi sul fronte di Alfonsine, e intenti a tirar granate a non finire, molte centrate sui villaggi e moltissime sprecate nei deserti acquitrini e nelle liquide distese della valle, non avrebbero fatto il minimo passo in avanti. Non si trattava di una impresa da poco, poiché i nazi, da soli, (chè le brigate nere si erano già sfatte da un pezzo in diversi modi di sparizione) si dimostrarono duri da smuovere. E occorreva anche che i partigiani si dessero la pena di avvertire i comandi alleati: «Avanti, venite, qui non c’è più nessuno!».

La domenica detta dell’Ulivo avemmo tutti un gran daffare. Il nostro comandante partì all’alba per un appuntamento in piena campagna dove si sarebbero radunati i rappresentanti dei partiti per la costituzione di un nuovo CLN, chè già tre o quattro di tali organismi, difficili e necessari per l’andamento della guerra, erano stati distrutti con delazioni o imboscate e i loro componenti fucilati, assassinati, dispersi dentro i lager tedeschi.

A me e alla Terzilla Montanari, la più combattiva delle mie «Agnese», era affidato il compito di ricuperare una certa valigetta dove erano contenuti i timbri e i documenti della Brigata «Mario Babini» (Formazione delle Valli di Comacchio, Campotto e Argenta) che sarebbero divenuti indispensabili per provare il nostro
operato all’arrivo degli alleati. Questa valigetta si trovava nascosta nello scavo di un muro in una casa colonica a pochi chilometri, che fino a qualche mese prima era stata sede del comando. L’avevamo abbandonata sotto la pressione della Divisione SS «Goering», venuta dalla Norvegia a rinnovare con forze fresche le ormai esangui truppe che tenevano il fronte. Dovemmo perciò rimpiattare le cose più importanti e cambiare continuamente gli uomini nelle cosiddette «caserme», che non erano altro che abitazioni contadine della bonifica ridivenuta valle dopo che i tedeschi, per rallentare l’invasione, avevano minato gli argini e aperto le dighe.

La Terzilla si strinse sotto il mento le punte del fazzoletto nero che portava in testa, un vero gesto dell’Agnese, e partimmo attraverso i campi. La casa dove avevamo vissuto in quell’inverno tremendo di freddo e di pericoli era nella frazione Menate, e vi trovammo scarsa collaborazione se non ostilità negli abitanti. Era gente strana, molto diversa da quella del Mulino di Filo, paurosa ed avida, si attaccava ai
tedeschi che occupavano la borgata, una compagnia di sussistenza abbastanza fornita che cercava di tenersi buona la gente per vivere in pace e a tempo perso divertirsi con le ragazze. A noi era occorso rimanere in quel luogo perchè un canale abbastanza largo ci permetteva di far giungere dall’interno le barche dei rematori di Comacchio, indispensabili per i rifornimenti delle nostre compagnie accantonate in mezzo allo specchio d’acqua della valle. Ma avevamo dovuto imporci a quelli della Menata e far loro più paura dei tedeschi per poter mantenere i nostri impianti di fortuna.

Arrivate alla casa, trovammo una accoglienza fredda e nemica. Solo il contadino Michele, morto poi negli ultimi bombardamenti, mi piace ricordare come comprensivo, persuaso della necessità dell’azione. Ma le sue donne, la moglie e le figliole, quando seppero perchè eravamo andate, divennero delle furie. Bisogna dire che in quei tempi costumava murare le cose di maggior valore, seppellire biciclette, macchine da cucire, biancheria e persino sveglie per proteggersi dalle razzìe dei tedeschi. Ma per noi che sapevamo il nascondiglio preciso della roba, non si trattava che di sbatter via un pezzetto di intonaco, togliere la valigia e ridare una mano di calcina. Lavoro di mezz’ora in un camerino dove i tedeschi non andavano. Invece saltarono fuori altre donne, anch’esse avevano cose loro nascoste in quel muro, mi minacciarono, mi strinsero in un angolo della cucina urlando che eravamo ladre, che volevamo portar via tutto. Michele prese in braccio sua moglie in preda a una crisi isterica per trascinarla fuori. Intanto la Terzilla era sparita, e io cominciavo a vederla brutta. Passò un maresciallo tedesco che alloggiava al piano di sopra, e le ragazze lo chiamavano, urlando come faine. Ma i tedeschi non volevano aver niente a che fare con le beghe dei civili, e lui chiamò due soldati dall’aia e salì senza rispondere. E proprio in quel momento ecco la Terzilla, con la sua magra, bella faccia etrusca, e in pugno un «manarino» (Manarino, piccola scure, molto usata specialmente dalle donne per tagliare pezzi di legna da mettere sul fuoco o dentro la stufa economica.). «Tanto, disse in dialetto, il muro l’ho già rotto!» Successe un pandemonio, ci picchiarono, io ci rimediai un occhio pesto, volevano buttarci nel canale, ma avevamo la valigia ricuperata, e al di là del primo campo incontrammo Armando «E’ Desch» e Cencio, che avevano contato il nostro ritardo e venivano a cercarci con la P.38 di traverso sotto la tuta.

E avanti con l’offensiva! I bollettini di Radio Londra, — Tà, tà, tà tà. Tà, tà, tà, tà, — martellati dalle prime note solenni della Quinta di Beethoven, davano strabilianti notizie: «L’esercito angloamericano avanza e si attesta sulla Sponda destra del fiume Menate», cioè quel canale dove i «velocipedi» di Comacchio, barche veloci larghe un metro e lunghe otto, dovevano entrare a prora dritta, e dare indietro con la poppa, altrimenti non riuscivano a voltare. Oppure: «Formazioni di caccia bombardieri smantellano le posizioni del Mulino di Filo». Questo sì, le bombe cadevano come se piovesse, ma «le posizioni» erano tutte le case isolate nella pianura, e intanto i tedeschi, stanati dai partigiani, si spargevano nei fossi o nei tombini e «cecchinavano» sulle strade alzaie dei vecchi argini. Il giorno 11 sotto gli spezzoni nacque il quarto figlio dell’Albina vedova da pochi mesi, che non avrebbe mai conosciuto suo padre, e a me toccò di far da levatrice, avendo in quell’evento paura non tanto degli scoppi quanto che mi succedesse una complicazione e che mi morisse o la madre o il figlio. Invece venne un bambino di quattro chili, con la cosiddetta benedizione della «camicia della madonna», ossia una pelle bianca e viscida intorno al corpicino, cosa che, nella scarsa fede religiosa di quei luoghi, non fece effetto a nessuno. Mi era vicino la più silenziosa, la più coraggiosa delle mie «Agnese», la Maria Margotti, sempre la prima ad accorrere, e fu anche la prima a spuntare nel ’49 sull’argine di Marmorta lasciando la vita sotto gli spari del carabiniere secco, duro, plumbeo, che somigliava d’aspetto al suo mitra.

E avanti con la liberazione! E i primi inglesi che vidi stavano accucciati contro un terrapieno, e sparavano verso le mura scalastrate della fornace, perchè un carro armato tedesco tempestava coi cannoni, posto dietro l’angolo di Casa Bragagliolo, ed uno di loro mi fece un gesto iracondo per ordinare che mi buttassi a terra. In giro non c’era anima viva. Solo boati e scoppi, tappeggiare di mitragliatrici, e sibili di «caccia» in picchiata. Stavo andando fortunosamente in cerca d’aiuto per il partigiano Fabio, colto dalla fucilata di un maledetto «cecchino» nazi: una ferita nell’alto della coscia con ritenzione di proiettile e perforazione. Ora stava morendo per emorragia interna su una rete nuda da letto nella stalla di Casa Visentini, e capiva di morire. «Era inutile venire qui con tanto pericolo» — mi disse — «e non andate a cercare nessuno». Nel nostro ultimo giorno di guerra, uno degli ultimi colpi del nemico aveva preso proprio lui che faceva il soldato dal ’40, prima nell’esercito regolare poi guerrigliero in Jugoslavia e Italia, cinque anni di combattimenti senza un graffio. Sapevo che a Casa Petronici era arrivato un reparto di Sanità inglese e costituito un ospedaletto da campo. Mi illudevo che forse arrivando in tempo si sarebbe potuto salvare Fabio con un intervento d’urgenza, si diceva che i feriti gravi venivano sgomberati e portati indietro, nelle retrovie. Invece quando arrivai da Petronici stavano «sgomberando» gli stessi inglesi e scozzesi, con armi e bagagli e cornamuse, e ciò significava un feroce dietro front dei tedeschi, la zona intera a ferro e fuoco, e noi nel mezzo con la popolazione.

Fu una giornata eterna, la morte sempre al fianco. Un «dodici» di aprile scuro come novembre, con le nuvole basse da cui non cadeva nebbia né pioggia, ma quasi un fiato sparso, intriso, rabbrividente. Avevo perso il contatto coi miei, il comandante con gli uomini era certo corso a individuare di dove venivano le bordate del solitario carro armato perchè gli alleati potessero centrarlo senza proprio danno, anche il mio bambino l’avevo lasciato con le donne della Pecorara, una casa da contadini in cui erano ammassati più di quattrocento «civili», discosta dalla strada ma non tanto che non fosse potuta caderci una bomba, e sarebbe stato un disastro, eppure ero attiva e tranquilla, certo non più recluta dispersa. Mi parve che non dovesse succedere nulla di male in un giorno come quello, avevo coscienza della grande superiorità dell’esercito partigiano su un esercito normale, e cioè che in questo l’azione viene ordinata in quanto si ha un grado, mentre i partigiani acquistano il loro grado dall’efficacia dell’azione. «Non possiamo sbagliarci» — pensavo — «proprio all’ultimo momento».

Questa era la guerra nella nostra «valle», che non è mare né fiume né lago ma acqua stagnante, bianca, sbattuta fra «dossi» e «barri» quando c’è vento, più torbida e sfatta che non il cielo, colma di alghe, con correnti sommerse, minacciose vie d’acqua, riconosciute solo nel chiaroscuro in superficie dall’istinto di coloro che qui son nati e cresciuti e impararono a nuotare e a guidar le barche prima di poggiare i piedi sul suolo fermo. Questi furono i luoghi e i paesaggi della vita che spesso credetti di vedere ultimi per i miei occhi. Forse ho parlato troppo di me, ma questa di cui sono fiera è la «mia» guerra, anche contro la paura, e sempre mi fu negato l’incontro, la felicità, il sollievo, l’ardore della vittoria, non vidi folle esultanti, né abbracci, né bandiere nel sole. Mi sentivo salda e salva in un orizzonte di pioggia, tra spari e scoppi, in linea. E così è stato per me il giorno della liberazione.

Fonti

LUCIANO BERGONZINI – LA RESISTENZA A BOLOGNA – TESTIMONIANZE E DOCUMENTI – VOLUME III – Istituto per la Storia di Bologna 1970

Dizionario biografico – R – Z – Luigi Arbizzani, Nazario Sauro Onofri – Bologna, 1998

Autore: Comandante Lupo

Ho ricercato e raccolto storie di vita, di guerra, di resistenza. Ne ho pubblicate, altre sono ancora da scrivere. Sono sempre alla ricerca di nuove storie se vuoi aiutarmi nella ricerca contattami.

1 commento su “Renata Viganò”

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